Recensioni / Design e antropologia

A metà tra la sprezzatura e la modestia di chi, da esperto di un altro mestiere, si avventura in un campo diverso dal suo, Gian Piero Frassinelli per Design e antropologia sceglie il sottotitolo “riflessioni di un non addetto ai lavori”. Curato da Gianfranco Bombaci, fondatore dello studio di architettura 2A+P/A e coordinatore dei corsi dello IED di Roma, il volume pubblicato da Quodlibet contiene le lezioni del corso di Antropologia Culturale che Frassinelli ha tenuto tra il 2012 e il 2017 all’Istituto Europeo di Design. Qui si muove, con grande libertà, dal design della tavoletta di cioccolata a quello delle granate, dalle etnografie dei Canachi agli studi di Jared Diamond su come allevare i bambini, alla mostra del 1972 al MoMA Italy. The New Domestic Landscape, ai viaggi e le migrazioni.
Gian Piero Frassinelli è uno dei fondatori del mitico Superstudio: per chi non ne conoscesse bene il lavoro, Bombaci ne offre una efficace introduzione, in cui ricorda che “Frassinelli entrò a far parte del Superstudio nel 1968, a due anni dalla fondazione per opera di Adolfo Natalini e Cristiano Toraldo di Francia. Aveva condiviso con loro gli anni di studio universitari, preparando insieme alcuni esami e partecipando attivamente al Movimento Studentesco”. Bravo prospettivista, sarà l’autore di molti dei collage del Superstudio, ma “sarebbe riduttivo racchiudere la figura di Frassinelli in un gioco di ruoli”, perché, come spiega bene Bombaci “ognuno dei componenti del Superstudio ha condiviso e messo in gioco la propria personalità e inclinazione di origine – Natalini per la pittura, Toraldo di Francia per la fotografia, Frassinelli per l’antropologia, Alessandro e Roberto Magris per la tecnologia – generando in maniera molto abile un’entità superiore, frutto della sintesi e dell’equilibrio intellettuale delle individualità”. Allora Design e antropologia può essere uno strumento per entrare dentro il Superstudio, o per spacchettarlo, aiutandoci a mettere a fuoco non solo l’approccio e le idee di Frassinelli, ma anche come la trasversalità delle competenze sia ancora oggi necessaria per pensare e ripensare la pratica architettonica e artistica.
“Che ci faccio qui? Me lo sono chiesto più volte,” scrive Frassinelli in una nota al testo, una specie di riassunto programmatico di quanto segue.

«Nel Superstudio mi occupavo di architettura e di ricerca, veniva fatto anche molto design, ma io non ho mai partecipato a quei progetti; anzi, la mia formazione antropologica mi ha sempre fatto considerare il design, come veniva e viene fatto, con un certo atteggiamento critico […]. Ritroverete questo atteggiamento critico nelle pagine che seguono, perché non mi ha mai abbandonato».

Così le tre sezioni, “L’antropologia come premessa”, “L’analisi antropologia del design” e “Dei problemi del design e del mondo”, funzionano nel complesso come le parti di un discorso e meritano di essere lette in quest’ordine: le premesse, appunto, sull’antropologia servono a Frassinelli come introduzione alla disciplina per gli scettici o gli inesperti, per poi passare al vero oggetto polemico, il design, e finire in una coda di appunti sul presente. Nel leggerle va tenuto conto che si tratta di effettive lezioni, riflessioni di un non addetto ai lavori rivolte a un pubblico di non addetti ai lavori e speranzosi futuri designer; va insomma accettato il tono essenziale – a tratti semplificatorio – con cui Frassinelli parla di antropologia e con cui quasi sempre inscena un confronto tra mondo occidentale e mondi lontani, vagamente esotizzati, per spiegare i fondamentali della ricerca etnografica.
Al centro della sua indagine, che nei momenti felici ha la stessa ironia dei Miti d’oggi di Barthes, c’è la relatività di quelli che a noi sembrano modelli eterni e che sono poco più che convenzioni temporanee: “Le stesse connessioni che neghiamo e non riusciamo a vedere nei nostri fatti sociali ci sono molto più accessibili e chiare quando osserviamo le altre culture (che pure a loro volta quasi sempre le negano),” scrive. “I modelli culturali reali vengono schermati dal gruppo sociale con falsi modelli; a tali prototipi il gruppo e i singoli ispirano i loro comportamenti; questi falsi modelli possono essere chiamati rituali” (Il corsivo è suo).
Per chi ci arriva da altre traiettorie, la sua sembra una dichiarazione piuttosto ovvia, ma non lo è così tanto se si pensa all’argomento su cui si applica la sua riflessione, cioè il design.
Così nella seconda sezione – la migliore, senza dubbio – emerge tutto l’approccio critico di Frassinelli al cosiddetto design. Cosiddetto perché del design si dice molto senza saperne niente, considerandolo un titolo per oggetti bellissimi e un po’ incomprensibili: e allora Frassinelli si lancia contro il razionalismo architettonico, che, con la sua fiducia nella tecnica e nella possibilità di migliorare i progetti, pretende di far a meno di un approccio culturale agli stessi, mettendo sullo stesso piano “violini e pistole”, propone strategie di resistenza alla dominazione delle merce, condanna l’obsolescenza programmata, che producendo peggio, permette di continuare a produrre di più. A un primo sguardo, anche queste sembrano crociate poco originali – alcuni dei testi sono riscritture di saggi nel ‘75 e si sente –, ma ancora una volta, ed è qui che bisogna concentrarsi, è il fatto che siano riferite al design che conta. Quelle di Frassinelli sono riflessioni, qui sì, di un addetto ai lavori che vale la pena prendere in considerazione nella loro contemporaneità.
In questi giorni è riemerso un video del 2008 in cui Enzo Mari diceva che “il design è uno spreco. Se guardiamo il design di oggi, a memoria futura, non è altro che la discarica dell’ignoranza e dell’orrore”, intendendo dire, pur col suo tono che non lascia possibilità di redenzione, che nella quasi totalità dei casi la qualità che oggi definiremmo design non si traduce in “progetto di qualità”, ma in un “puro manierismo per incrostare gli oggetti”, una qualità legata alla vendibilità dell’oggetto e non alla sua effettiva progettualità. Allo stesso modo con questi saggi Frassinelli sembra chiedere quale sia la funzione del design oggi, tentando di tracciarne una genealogia diversa, fatta di antenati e esempi meno chiassosi e più utili, per provare a disegnare una nuova direzione futura, riportando la dimensione progettuale a una condizione comunitaria, sociale, culturale.

Anche Ettore Sottsass scriveva che “la storia del design fu messa su e forzata usando l’idea che il design era un modo per spingere l’affare delle vendite, per spingere il business perché l’industria doveva produrre e la gente doveva comprare”, considerandolo poco più di “una carezza, un dolcino, uno shock” (da Molto difficile da dire). Se Mari rifiuta il termine di designer, preferendogli quello di progettista, come posizione politica, di lotta di classe, Sottsass ci arriva per riflessioni culturali e artistiche, e Frassinelli grazie all’antropologia, ma tutti e tre, pur nelle loro diversità, pongono critiche simili che allora non sono più scontate, ma piuttosto essenziali per il ripensamento e la discussione della funzione del design.
Di Frassinelli su tutti vale la pena leggere Sguardi diversi sul design: Victor Papanek e Donald Norman, un saggio che parla di due personalità forse poco conosciute, ma che danno la cifra del suo intervento. Se Norman analizzava le difficoltà a usare gli oggetti di design (la frustrazione da istruzioni d’uso sempre più complesse e astruse), Papanek ne progettava altri per chi non poteva permettersi di comprarli.
Per Papanek “scrivere un poema epico, dipingere un affresco, metter sulla tela un capolavoro, comporre un concerto: è progettare. Ma lo è anche pulire e riordinare un cassetto, sbloccare un ingranaggio, […] Progetto significa sforzo cosciente per imporre un ordine significativo”. Si scagliava contro i brevetti, perché il buon design dovrebbe essere di tutti e di lui forse, oggi, è rimasto poco: voleva costruire radio da pochi dollari perché tutti ne avessero una, ma la sua voce è rimasta per lo più inascoltata. Frassinelli lo difende bene dalle accuse di ottimismo e di ingenuità dilettantesca, perché quello che resta valido è la necessità di un ripensamento della disciplina, un’apertura ideale e idealista alle possibilità reali di miglioramento della collettività, del mondo là fuori. Quello che lega Frassinelli a lui, così come lo lega a Mari o a Sottsass, è il desiderio che il design riguardi le persone prima che la merce.
Non c’è nessuna epoca dell’oro di cui questi autori sono nostalgici – per fortuna di chi li legge oggi. Sottsass parlava della necessità di un controdesign (“non una formula, ma un modo di pensare”) contro il design trasformato “in un affare sempre più impegnativo e impegnato” nel 1971, Mari pubblica Autoprogettazione? nel 1974, gli Atti Fondamentali del Superstudio sono del 1972. Tutti e tre, infatti, proprio in quell’anno sono invitati a partecipare alla mostra Italy. The new domestic landscape al MoMA di New York, che intendeva mostrare un panorama sul design italiano, considerato allora “il vertice mondiale della disciplina”. Nel suo saggio, “Sociologia e psicopatologia di una mostra di design”, Frassinelli ne racconta i protagonisti (tra gli altri, Gae Aulenti, Archizoom, Ugo La Pietra…) e le vicende: Enzo Mari, per esempio, rifiutò di realizzare il suo environment dicendo che se le parti in cui lo mostra sono identiche allora la loro messa in scena è ridondante, se sono diverse è “illusorio pensare che differenze riguardanti gli aspetti socio-economici della progettazione possano essere comunicati scenograficamente” (chiude scrivendo che “l’evoluzione sociale oggi può essere determinata esclusivamente dalla lotta di classe”. Frassinelli ritiene la sua posizione “francamente superata anche nell’ambito ideologico di sinistra” – perché sia chiaro che si tratta di personaggi e traiettorie diverse).
Superstudio in quel caso porterà delle installazioni accompagnate da video in cui intende proporre “la nascita di una civiltà libera dagli oggetti […] una vita libera dal lavoro, nomadica, in cui ognuno avrebbe potuto estrinsecare le sue qualità artistiche e immaginative”. Si tratta appunto degli Atti fondamentali, manifesto di un modello alternativo di vita, che riprende il lavoro già iniziato con Movimento continuo. Vale la pena di guardare Vita Supersuperficie (da cui, tra l’altro Veronica Raimo ha tratto la copertina per Miden), per capire a fondo la poetica e la politica di Frassinelli e del Superstudio: il pensiero che l’architettura debba abbracciare la terra nella sua interezza, che ogni pratica debba essere orientata alla vita come unico campo di azione, alla produzione di un nuovo mondo ideale:

«Perderemo forse i nomi di tutte queste discipline (e non sarà un gran male) quando tutte saranno presenti in essenza nella nostra mente. Riusciremo a creare e trasmettere visioni e immagini, forse anche a far muovere piccoli oggetti per gioco. […] L’unica environment art sarà la vita».