Un modo ‘curreriano’ di cominciare questo resoconto potrebbe essere il seguente: «È la
seconda volta che mi capita di recensire, senza pensarci su, un libro di Luciano Curreri su uno dei
momenti chiave della storia europea recente, e sulle sue ricadute nell’immaginario della letteratura e
della cultura e nell’attualità storico-politica. Ma questa occasione, forse più della prima, mi fa
muovere al di là della simpatia e della stima che ho nei confronti dell’autore». Il primo libro, che
recensii nell’ormai lontano 2007, era dedicato alla guerra di Spagna (cfr. L. Curreri, Le farfalle di
Madrid. «L’antimonio», i narratori italiani e la guerra civile spagnola, Roma, Bulzoni, 2007, pp.
340); questo di oggi risale invece nel tempo di quasi settant’anni, dal 1936-1939 al 1871, per
raccontare una storia che inizia con la Comune di Parigi. E però, se entrambi i volumi condividono
alcuni punti fermi della critica secondo Curreri – la voracità dell’ambizione conoscitiva; la
predilezione per una struttura discorsiva che vorrei chiamare ‘benjaminiana’, citazionale e aperta,
sempre pronta a cogliere tutte le sollecitazioni dei testi, nella convinzione che l’eccesso di ricchezza
sia più produttivo dell’eccesso opposto (anche se poi si punta sempre a una selezione non banale);
l’entusiasmo contagioso dell’autore, che interpella senza sosta il lettore e vorrebbe trascinarlo in un
autentico dibattito intellettuale, al di là dei confini del libro –, e se le somiglianze sono, come
cercherò di dimostrare, più numerose delle differenze, il volume che qui recensisco più di quello del
2007 ambisce a inserirsi in un dibattito di grandissima attualità, che scavalca le occasioni del
passato per andare incontro al nostro futuro.
Ma andiamo per ordine. Dirò intanto che il libro sulla guerra di Spagna e questo sulla
Comune presentano alcune somiglianze cariche di significato. C’è, comune a entrambi, la
predilezione per l’indagine rabdomantica, a caccia delle risorgenze ‘carsiche’ di un evento
fondatore (nella letteratura, nella cultura, nella politica, nella storia) in epoche successive che a
quell’evento guardano in modo più o meno scoperto: se il libro del 2007 ricostruiva la
ramificatissima progenitura della guerra di Spagna, questo del 2019 tenta di raccontare la vicenda
per lo più «carsica, nascosta, sotterranea» (p. 42) dei successivi e significativi ‘ritorni d’attualità’
della Comune presso rivoluzionari, visionari, politologi, scrittori, registi, fumettisti (e tuttavia con
contestualizzazioni nuove e lontane dall’uso più iconico e noto che le rivoluzioni novecentesche ne
hanno fatto e che Curreri, pur conoscendolo e conoscendo la relativa bibliografia, non percorre più,
a tutto vantaggio di un suo più personale approccio). C’è inoltre, in entrambi i casi, l’idea che un
evento-archetipo di questo genere acquisisca una risonanza inevitabilmente più vasta dei suoi pur
vasti confini: sicché per esempio – scriveva Curreri nel 2007 – la letteratura si serve della guerra di
Spagna per rappresentare «altre guerre», «altre resistenze», «altre memorie letterarie e civili di un
Novecento “ferito a morte”» (L. Curreri, Le farfalle di Madrid, op. cit., p. 118); mentre nel
volume Quodlibet, fra una pagina di Victor Hugo e un’altra di Denis de Rougemont che le fa eco,
fra un romanzo storico degli anni Trenta come Les Massacres de Paris (1935) di Jean Cassou e un
romanzo popolare come Le Canon Fraternité (1970) di Jean-Pierre Chabrol, fra Malon e Marx,
Lenin e Lavrov, Kropotkin e Gramsci, e fra «una serie nota di rivoluzioni» otto-novecentesche (p.
57) e le recentissime appendici europee di quel che «è successo in Grecia e ancor più […] in
Catalogna (e di riflesso in Europa, che di sovente non ne ha voluto e non ne vuol sapere) tra il 2017
e il 2018» (p. 92), si ha l’impressione di trovarsi «quasi in presenza di una Comune permanente, ben
prima della più nota Rivoluzione permanente» (p. 49). Ancora: nel 2007 come nel 2019 l’indagine
poggia sulla convinzione del critico che interrogare i testi del passato, anche quelli meno noti o
meno riusciti, perfino i romanzi dimenticati e magari quelli che sono stati dimenticati con qualche
buona ragione, possa servire a comprendere il nostro presente e a interpretare – e perché no, a
cambiare – il futuro verso cui ci stiamo dirigendo (quasi quest’ultimo potesse esser figlio di un
‘testo minore’, di un’entrée en matière, di un dettaglio, che possono lasciarci un po’ perplessi di
primo acchito ma che finiscono con il fare sistema, forse più di quanto molti critici sarebbero
disposti ad ammettere). Questa convinzione ‘illuministica’ della militanza culturale che presuppone
lo scandaglio delle esperienze passate, che si nutre di storia e non rinuncia mai a formulare una
proposta – anche qualora la sappia utopica – se soltanto la crede feconda, Curreri la condivide con
quelli che sono, se non erro, i suoi maestri ideali: ovvero i grandi critici e teorici della letteratura del
Novecento, in particolare quella generazione degli anni Trenta cui l’autore medita da tempo di
dedicare una delle sue appassionate ricostruzioni. «Le farfalle di Madrid è un libro costantemente
aperto sull’attualità letteraria, culturale, storico-politica», scrivevo nella già menzionata recensione
al libro del 2007; e Curreri, da parte sua: «la guerra civile spagnola può informare il nostro presente,
“da lontano”, e in tal senso insegnarci a dire il presente appena passato, [...] e finanche quel presente
che è già futuro» (L. Curreri, Le farfalle di Madrid, op. cit., p. 318). Non diversamente La
Comune di Parigi e l’Europa della Comunità?: libro che, di nuovo, dal passato trae linfa per il
presente e il futuro; la differenza consiste casomai in un più forte accento engagé, come dirò fra
breve.
Ma prima di sottolineare un paio di differenze fra la vecchia e la nuova indagine, vale la pena
di precisare che il paragone da me istituito non è se non il riflesso di quello che i protagonisti stessi
della storia e della cultura novecentesca stabilirono fra i due grandi eventi. Curreri dedica alcune
ben centrate pagine a ricordare come la connessione fosse stabilita fin dall’inizio: il «legame
repubblicano tra Fronte popolare e Comune di Parigi» (p. 15) apparve chiaro a chiunque avesse
nozione non superficiale della storia europea del secolo precedente. Di conseguenza, gli esempi di
«cortocircuito evidente […] tra guerra civile spagnola e Commune» (p. 16) non dovranno suscitare
alcuno stupore, se pure va riconosciuto allo sguardo attento e alle conoscenze vaste e talvolta
peregrine dell’autore il merito di averli identificati o messi in risalto. E infatti, se il contributo del
libro in esame consistesse soltanto nel tracciare questo binario preferenziale che da Parigi 1871
porta a Madrid 1936-1939, l’interesse e la novità del libro medesimo sarebbero un po’ meno
acuminati. Ma la vera scommessa di Curreri è un’altra: il percorso che gli interessa conduce oltre la
Spagna degli anni Trenta, fino all’Europa in cui viviamo oggi. La Parigi della Comune si presenta
non più soltanto come capitale della nazione francese, ma dell’Europa tutta; per dirla con una
citazione da Victor Hugo la cui sostanza, se non la forma, ricorre più volte nel libro: «nous écrivons
sur notre drapeau: États-Unis d’Europe» (pp. 31-32). E «il nesso [della Comune] con la Modernità –
con le tante modernità – rimane ancora, per un certo verso, la questione» (p. 53), il fulcro di tutta la
faccenda; detto altrimenti: l’uso che della Comune possiamo fare noi, nel tempo che ci è stato
impartito. Questa «libertaria, affascinante e pericolosa organizzazione alternativa dell’esistenza che
sembra periodicamente risorgere, ritornare, come una specie di eruzione irresistibile, an-historique»
(p. 56) – sono parole che descrivono la Cour des Miracles di Victor Hugo, ma che, lascia intendere
Curreri, si prestano a descrivere anche la Comune meta-storica che il critico ha in mente – può
infatti costituire un modello per l’Europa della Comunità. Il «cronotopo in vivo» che è «associato»
all’esperimento parigino – come scrive ancora l’autore, con un’originale estensione della teoria
bachtiniana dal suo campo d’elezione, il romanzo, alla realtà della lotta politica otto-novecentesca –
ha ancora molto da dirci: nell’«utopia della Comune» la città «diventa la fortezza stessa del comune
parigino, il bastione e insieme il luogo del potere, esecutivo e legislativo a un tempo, attraverso un
processo di identificazione che il popolo estrinseca a tutti i livelli, dal suo essere in armi, con la
soppressione dell’esercito stabile, al far parte di un corpo politico nuovo che esce da una
democrazia diretta via un suffragio universale che non impedisce la revoca delle cariche a quei
cittadini che non si sono dimostrati all’altezza dell’incarico» (p. 61). È appunto questo nucleo vivo
della Comune – che il già citato Hugo e Denis de Rougemont hanno còlto meglio di tutti; e non a
caso a queste due grandi figure è dedicato il capitolo credo più cospicuo del libro di Curreri, il
terzo: Dal «patron communal» (1870) di Victor Hugo (1802) all’«Europe parallèle» (1976) di
Denis de Rougemont (1906). Materiali (e immaginari) (pp. 73-93) – è dunque questo cuore pulsante
dell’esperienza parigina che vale la pena di meditare oggi, traendone ispirazione e spunti per
costruire quella convivenza europea di cui tanto si discute.
Dicevo sopra che rispetto al volume sulla guerra di Spagna, questo sulla Comune di Parigi
presenta, argomento a parte, qualche differenza non trascurabile. Si tratta, intanto, di un libro più
asistematico e meno costruito del precedente, che Curreri affida all’ispirazione dell’attimo,
fiducioso nella produttività ermeneutica di ciò che potremmo anche definire ‘poetica della briciola’
(alla dignità concettuale della nozione di ‘briciola’ alludono in particolare una pagina e una nota,
ma è tutto il discorso del primo capitolo, se non il libro tutto, a sostanziarla). Ma chissà che non sia
appunto questo il modo migliore di fare critica oggi, in un’era in cui le grandi sintesi e i libri
sistematici sono diventati più ardui o forse impossibili; chissà che non siano proprio il «petit recueil
d’idées détachées» di cui parla Eugène Delacroix in una delle due belle epigrafi scelte dall’autore
per il suo libro, e il «travail à bâtons rompus» che viceversa Benjamin Constant trova frustrante e
dispersivo, a cogliere nel segno più di ciò che lo stesso Delacroix chiama «un livre dans toutes les
règles» (p. 7 per tutte e tre le citazioni). Soprattutto, la novità principale della Comune di Parigi e
l’Europa della Comunità? mi sembra la seguente: si tratta di un libro che varca sistematicamente e
deliberatamente ogni possibile frontiera tra discipline, discorsi, sfere del pensiero e dell’agire, un
po’ al modo in cui la «confisca popolare» che ne è l’argomento delinea «uno spazio recuperato e
ricostruito entro i fluidi confini della città (chiusi materialmente dai Versagliesi ma di fatto aperti e,
in un certo senso, liquidi, municipalmente liquidi)» (p. 63). Così Curreri parla anche di letteratura,
ma nel mucchio di tanti altri tipi di discorso e forme espressive (per esempio il cinema, con gli
esempi delle pp. 37-38, 66, e passim, o il fumetto, cui è dedicato il quarto e ultimo capitolo:
Concludendo con la BD. Altri materiali (e immaginari), pp. 95-112), e soprattutto di tante altre
sfere dell’esperienza umana. E questa è appunto una differenza importante rispetto alle Le farfalle di Madrid, dove Curreri moltiplicava sì i riferimenti all’attualità politica, ma sempre partendo dalla – e
ritornando alla – testualità letteraria (o critica). Nel libro di cui mi occupo, invece, l’«approdo
letterario, fumettistico e cinematografico» è «momentaneo e rapido» (p. 68): Curreri ricostruisce
secondo suo solito numerosi percorsi fra letteratura e saggistica, cultura e immaginario, ma ciò che
gli preme è innanzitutto una proposta politica, il programma di una nuova Europa di ispirazione
communarde. Come dichiara lui stesso nell’abstract dell’opera, che rielabora un passo del primo
capitolo (cfr. pp. 30-31) ed è disponibile anche sul sito dell’editore: «[questo] è il libro di un
italiano all’estero che è deluso dall’Europa della Comunità – una specie di madre senza figli e senza
futuro, sempre incinta di popoli che vuole “sterilizzati” o sulla via di esserlo, anche e soprattutto da
un punto di vista storico-culturale e linguistico – ma che ama l’Europa in sé e vive nel cuore della
stessa, e più per necessità che per potersene vantare (o per dirsi – come altri vorrebbe – in geniale
esilio); non mira con sdegno un paese né si arruffiana le sue corti per essere dentro o fuori l’Europa;
cerca più semplicemente un’altra Europa. Ed è per questo che ha sentito la necessità di coniugare
con una certa, problematica urgenza, la Comune di Parigi e l’Europa della Comunità» (p. 131).
Vale forse la pena di ascoltare questa singolare provocazione che ci giunge dal cuore
dell’Europa.