Recensioni / Il respiro di libertà  di una mente musicale

Un libro per il suo addio all'insegnamento, firmato da allievi e amici, fedele alla molteplicità degli studi del maestro

Esiste una foto, scattata nel 1990 in occasione di una lettura dei poeti al Museo Pecci di Prato, che ritrae un insolito quintetto. Di fronte, sorridente, strette tra loro, dritte davanti al fotografo quattro persone: tre poeti di chiara fama, Milo De Angelis, Giovanna Sicari e Valentino Zeichen, affiancato dalla sua donna. Ma all’insaputa di tutti, una quinta figura sbuca dall'angolo sinistro, appare distratta, (aria preoccupata: guarda altrove. Si trattava di Michele Ranchetti, uno che lì quella sera non conosceva quasi nessuno, uno che a sessantanni aveva pubblicato le poesie di tutta la vita in un volume (Garzanti, 1989) dal titolo stupendo: «La mente musicale».
Michele Ranchetti ha insegnato Storia della Chiesa all’Università di Firenze e mercoledì scorso, i suoi allievi hanno festeggiato il suo addio all’insegnamento con un libro in suo onore. "Anima e paura" (Quodlibet, pp. 466, £. 65.000) raccoglie gli scritti degli allievi, dei compagni di strada, degli amici. Il compito delle curatrici, Anna Scattigno e Bruna Bocchini Camaiani, è stato quello di essere fedeli alla molteplicità degli studi del grande maestro: gli argomenti vanno dal Benjamin di Agamben al Wittgenstein di Nedo, agli interventi di esegesi e di storia religiosa di Adriani, di Martini, a quelli di psicoanalisi di Candreva e Mistura. I contributi sono più di trenta e tra essi spiccano, «in limine» al volume, le testimonianze di padre Camillo De Piaz, di Pier Vincenzo Mengaldo, di Emilio Tadini e Pierre Riches.
A festeggiare c'era anche il suo amico Giovanni Ferrara, che in poche parole commosse ha disegnato il profilo di una figura intellettuale che appartiene a una «stirpe regale dello spirito», figura anomala, irregolare, antiaccademica, che ha attraversato le discipline per portare in tutte, dalla musica alla teologia, dalla poesia alla filosofia, dalla pittura alla psicoanalisi, un respiro di libertà. La libertà di chi sa che per produrre una rappresentazione del mondo, anche e soprattutto di natura politica, e necessaria un'impostazione etico-spirituale: pena il fallimento del progetto.
Nonostante sia stato il curatore del Freud di Boringhieri e degli scritti adelphiani di Wittgenstein, Ranchetti non è visibile ai più perché ha scritto pochi libri. Il primo, nel 1963, si chiamava «Cultura e riforma nella storia del modernismo», poi le poesie nel 1989 e infine «Gli "ultimi preti"» che la casa editrice Ecp ha pubblicato da pochi mesi raccogliendo gli scritti su Don Milani, Balducci, Turoldo, la comunità di Nomadelfia, l’esperienza dell’isolotto. Del resto non si sa niente.
Bisognerebbe seguirlo sulle, poche, riviste a cui affida, solo qualche volta, i suoi scritti: "Bailamme, la «Rivista di ascetica e mistica», «Linea d'ombra» Un solo quotidiano: «il manifesto». Bisognerebbe conoscere la sua attività di promotore di cultura, di Karl Barth presso Feltrinelli, di Taubes presso Garzanti. Bisognerebbe conoscere un suo scritto che sta dentro il volume einaudiano «Il XX secolo»: «L'olocausto nucleare», dove con forza denuncia la mancata coscienza da parte degli intellettuali, tranne Sartre e Günter Anders, della gravità di quel fatto, radicale, ultimativo, di quella certezza che l’uomo può distruggere l’uomo. E bisognerebbe anche aver letto, su queste pagine, «Heidegger Tagebüch», il racconto di un Heidegger, rinchiuso dalla moglie in una clinica per malattie mentali, che rifiuta ogni «etica della condanna», cioè rifiuta di pensare come la moglie che la guerra sia persa o vinta, che esista la possibilità di imputare la guerra a qualcuno. Era il 1946 quando Ranchetti scrisse che se quella guerra aveva avuto un senso era solo nel «dolore di un’ Europa che dovunque, nei suoi paesi fertili o sterili, ricchi o poveri, era in rovina».
Quella sera a Prato i poeti non si avvidero della grandezza di quel piccolo uomo che stava defilato, videro forse la sua dolcezza sotto l’aria cupa, lampeggiò di certo la sua straordinaria intelligenza ma nessuno sapeva. Eppure una cosa è certa: se si ha la ventura di conoscerlo, Ranchetti, non lo si lascia più.