Vorrei «poter dare un senso di ciò che la
postcritica fa anziché ciò che dice. Il mio
dire sarà quindi un mezzo per fare postcritica». Con queste parole Mariano Croce, docente di Filosofia politica all’Università La Sapienza di Roma e autore di numerose opere
di portata internazionale (ricordiamo, fra le
altre, The Legal Theory of Carl Schmitt, con A.
Salvatore, e The Politics of Juridification), riassume il proposito del suo ultimo libro.
Il testo introduce il lettore italiano a una
nuova prospettiva filosofico-politica, quella
della postcritica, che sta avendo un’importante risonanza internazionale (si pensi al lavoro di Rita Felski o al recente volume in lingua francese Postcritique curato da Laurent
De Sutter), ma che non ha ancora trovato
uno spazio adeguato nel dibattito italiano.
L’autore in una novantina di pagine si rivela
capace di compiere un’operazione importantissima: mettere all’opera la postcritica come
gesto e postura filosofica, evitando volutamente di limitarsi a una ricostruzione accademica e sterile del dibattito tra critica e
postcritica.
Partiamo, dunque, dall’interrogarci sul
significato stesso di questa strana creatura filosofica chiamata postcritica. Croce, fin dalle
primissime pagine (che costituiscono per
l’autore non una «premessa», bensì una
«promessa»), ci ricorda che per comprendere
la postcritica non dobbiamo imitare il famoso ti esti socratico, chiedendoci che cosa essa
sia: la risposta in questo caso sarebbe necessariamente troppo vaga, ambigua, insoddisfacente. Potremmo dire che la postcritica è
tradimento della critica, rottura e strappo rispetto a quest’ultima, ma tale definizione
non ci consentirebbe di avanzare molto
nell’indagine.
La domanda sulla postcritica deve perciò
cambiare prospettiva: deve diventare una
domanda spinoziana e chiedere conto di che
cosa essa possa fare. Solo a partire da tale interrogativo si profilano con maggiore nitidezza i suoi contorni: essa è operatività trasformativa capace di compiere almeno tre
operazioni fondamentali (che costituiscono
anche il sottotitolo del libro), ossia produrre
asignificanza, ricomporre la materia e combinare gli affetti.
Prima d’analizzare nello specifico queste
tre operazioni, a ciascuna delle quali è dedicato un capitolo del testo, Croce ci ricorda
che esse possono essere definite postcritiche
nel momento in cui condividono e mettono
in atto una certa maniera di guardare alle cose che non cerca di spogliarle, isolarle o
astrarle al fine di riconoscerne l’essenza,
bensì le osserva solo in quanto disposte «in
una serie, un ordito, un concatenamento»
che conferisce loro «una certa configurazione» (10).
La postcritica intende, dunque, lasciare
che le cose emergano dalle connessioni in
cui si esprimono. Essa, invece che scavare nel
profondo alla ricerca di verità nascoste (come ha fatto gran parte della filosofia e della
teoria sociale novecentesca a partire dalle lezioni dei tre celebri «maestri del sospetto»:
Marx, Nietzsche e Freud), sceglie di toccare la
superficie (questo il titolo del primo capitolo)
e provare, così, a recuperare all’interno del
reale il singolare e le sue variazioni, in altre
parole il suo tessuto connettivo.
Veniamo, così, alle tre operazioni o – come le chiama l’autore – «note distintive»
della postcritica. La prima, l’asignificanza, è
l’effetto di un tentativo coraggioso: quello di
slegare il mondo dalla sua semiotizzazione e
dal regime saturo della significanza. Il pensiero occidentale, da Cartesio a Wittgenstein, ci ha insegnato a tendere una trappola
al reale: quella del segno linguistico – la parola – che secondo tale prospettiva dona significato alla cosa e ne esaurisce interamente il senso.
La postcritica prova, al contrario, a liberare la cosa dal suo legame unilaterale con la
parola e la lascia così libera di circolare e di
creare nuovi legami con la materia. Si tratta,
perciò, di realizzare un accesso asignificante
alle cose: compito per nulla facile, come ci
ricorda lo stesso Croce passando in rassegna
diversi tentativi di fuoriuscita dalla significanza, da quello di Manganelli (che tenta
una saturazione totale del linguaggio) a
quello di Queneau (che azzarda un esercizio
di stile per uscir fuori dalla lingua) per arrivare, infine, al più riuscito, quello di Clarice Lispector.
La scrittrice brasiliana fa «un uso obliquo
del linguaggio» (50) che le consente di utilizzare la parola per notare (anziché denotare) i
legami tra le cose; in tal modo nasce una cartografia del «non-linguistico», cioè dello spazio che eccede il linguaggio e che mostra
l’accadere dei movimenti materiali.
Si passa così dall’asignificanza alla materia: il silenzio della prima ci conduce, infatti,
direttamente alla forza agentiva (ossia alla
«capacità di produrre effetti») della seconda.
Al cuore della postcritica vi sono un concetto
operazionale della materia e una nozione relazionale dei fenomeni: non esistono corpi
isolati, ma solo catene intrattive entro cui la
postcritica con i suoi concetti può collocarsi.
Tale collocazione consiste nell’entrare
dentro il concatenamento, operarvi un taglio, far emergere delle singolarità che divengono individuali e ricomporre, infine,
queste stesse singolarità nella materia, concatenandole in modo nuovo e imprevisto.
L’intero processo si svolge in superficie su di
un piano d’immanenza e prevede attività di
ritaglio (della materia), dettaglio (l’individua[bi]le che emerge) e sfocatura (non possiamo osservare le cose con eccessiva nitidezza, pena l’astrazione; serve una certa dose di miopia per poterle vedere, invece, sfocate, mescolate, concatenate).
La postcritica si rivela, dunque, come un
movimento che, rinunciando alla significazione e alla profondità, non potrà che essere
a-direzionale, a-dialettico, vorticoso, casuale,
superficiale e molecolare: prendendo a prestito le parole dei filosofi francesi Deleuze e
Guattari, potremmo definirlo una sorta di
«sorvolo senza distanza, raso terra (…) al
quale non sfugge nessun baratro, nessuna
piega né iato» (G. Deleuze, F. Guattari, Che
cos’è la filosofia?, Einaudi, Milano 2002, 212).
La postcritica è allora un modo di collocarsi negli interstizi, nelle pieghe del reale e
ciò produce sempre degli effetti materiali e
«trasduttivi», capaci cioè di sprigionare energia per «formare e alimentare altri corpi»
(74). Toccando la superficie produciamo affetti e affezioni: si tratta d’imparare a combinarli al fine di riconoscere – come ci insegnava Spinoza nell’Etica – quali composizioni
sono per noi nocive e quali vantaggiose. Tale
mappatura prende il nome di chemiotassi e
coincide con la terza operazione postcritica,
ossia la combinazione degli affetti.
Dalla ricostruzione delle sue attività,
emerge dunque il profilo della postcritica:
attività pratico-filosofica che condivide con
la critica l’obiettivo di toccare il reale. Ma essa
rivendica quel prefisso «post» che sta a indicare la diversa modalità con cui questo tocco
viene effettuato: invece che scavare, separare, oggettivare, la postcritica utilizza il concetto per tagliare, ricomporre, combinare.
La differenza tra critica e postcritica sta
allora in una modalità di guardare, in una postura, in uno stile di vita, in una maniera di
stare al mondo che, nel caso della postcritica,
pone come punto di partenza e punto d’arrivo imprescindibili le collocazioni immanenti,
affettive e connettive nelle quali viviamo.
L’autore la definisce una rivoluzione di maniera e il libro che ci propone, con il suo incedere
agile e allo stesso tempo stilisticamente e
concettualmente potente, ne è un eccellente
punto di partenza.