Recensioni / Jim Dine il ribelle. Carriera di un artista contro

Quella di Jim Dine (Cincinnati, 1935) è un'arte autobiografica, distante da qualsiasi problematica sociale o politica. Lui stesso lo conferma regolarmente, da sessant'anni. Nel 1999 rivelò a Clare Bell e Germano Celant, in una lunga intervista pubblicata nel catalogo di una personale al Guggenheim di New York, la genesi di The studio (Landscape painting), un suo lavoro del 1963: «Guardavo fuori dalla finestra della casa dove allora vivevo mentre nevicava. Era tutto nero con dei grandi fiocchi bianchi che scendevano. Allora pensai, perché non fare un quadro che presenti gli elementi di un paesaggio, solo gli elementi del paesaggio, senza voler dipingere un paesaggio?». Sulle sei tele che compongono l'opera troviamo così, come ha scritto Daniela Lancioni, curatrice della mostra che il Palazzo delle Esposizioni di Roma dedica dall'11 febbraio a Jim Dine, «un campionario di diverse circostanze o condizioni atmosferiche che determinano la percezione dei paesaggi: il buio della notte e la luce del giorno, il verde abbagliante della natura a primavera, la terra e il cielo azzurro, la color chart di un tramonto odi un'alba e la neve che fiocca di notte, proprio come l'ha vista Dine dalla finestra del suo studio». Dine espose The studio (Landscape painting) alla Biennale di Venezia, in quell'edizione del 1964 che lanciò la Pop art in tutto il mondo e in cui il Gran Premio della giuria assegnato a Robert Rauschenberg scatenò un'ondata di aspre polemiche, insieme ad altri lavori ora presentati a Roma: Shoe, del 1961, Black shovel, Four rooms e White bathroom, del 1962.

SPECCHI, ASCE, CUORI. In quel fatidico 1964 che avrebbe fatto conoscere le sue opere a mezzo mondo, un mese prima dell'inaugurazione della rassegna veneziana Dine aveva già preso per l'ennesima volta le distanze dalla Pop art, alla quale alcuni associavano la sua ricerca: «Più che le immagini popolari m'interessano le immagini personali, fare dipinti sul mio studio, sulla mia esperienza di pittore, sullo stesso dipingere, la scala dei colori, la tavolozza, gli stessi elementi del paesaggio reale, ma usati diversamente». Indubbiamente Jim Dine era a quei tempi molto più vicino a Rauschenberge a Jasper Jonhs, che ammirava moltissimo, piuttosto che a qualsiasi esponente della Pop art: «Quando uso gli oggetti li vedo come un vocabolario di sentimenti», disse sottolineando l'abissale differenza della sua poetica rispetto a quella di Warhol, Lichtenstein, Rosenquist e Oldenburg. Per quanto riguarda la natura soggettiva del suo lavoro e il lato solitario della sua personalità, Dine è stato altrettanto chiaro: «L'unico dialogo che posso intrattenere è con lo specchio, la mattina. Le decisioni che devo prendere a proposito di un dipinto devono essere le mie. È tutto. Se c'è una questione morale è tra me e lo specchio». Anche gli oggetti, che nei primissimi anni Sessanta popolano tutti i suoi lavori, hanno una valenza autobiografica. Sono indumenti e utensili da lavoro — martelli, seghe, pale, chiavi inglesi, lavelli e asce — che lo affascinavano fin da ragazzo, quando andava a guardarli, appesi alle pareti, nel negozio di forniture per idraulici del nonno, ma anche pennelli, tavolozze e spatole da pittore, o scalpelli da scultore, oppure abiti e oggetti d'uso quotidiano, come accappatoi, scarpe, bretelle e cravatte. In una personale nella galleria di Sidney Janis, sempre nel 1964, dove due anni prima aveva esposto in New realists, una collettiva che avrebbe fatto epoca, presentò per la prima volta una serie di dipinti raffiguranti un accappatoio dipinto con stile espressionista. Per Dine si tratta di un autoritratto, è lui l'«uomo invisibile», il protagonista di quella serie di opere che continuerà a mettere sulla scena nei decenni seguenti, come per esempio in The farmer, monumentale dipinto del 1984 esposto ora a Roma. L'ispirazione gli era venuta sfogliando il «New York Magazine». In una pubblicità c'era «un accappatoio senza nessuno dentro. Mi assomigliava e così ho pensato, se lo uso posso fare un prodigioso autoritratto»: sfidare qualsiasi tradizione è sempre stato uno degli imperativi della sua poetica. Da allora quei monumentali accappatoi sono diventati un tema ossessivamente indagato da Jim Dine, come accadrà nei primi anni'70 con i Cuori, e poi con le Veneri di Milo e i Pinocchi che popoleranno l'immaginario e altre serie di Dine.

COSE QUALUNQUE. Al Palazzo delle Esposizioni di Roma sono esposte 60 opere che, realizzate tra 111959 e 112016, ripercorrono l'intera produzione dell'artista. Trenta lavori arrivano dal Centre Pompidou di Parigi, che li ha ricevuti in dono da Jim Dine nel 2017, e altre opere importanti sono state prestate dal museo di Ca' Pesaro di Venezia e dal Mart di Rovereto, dal Whitney di New York e dal Louisiana di Humlebk, in Danimarca. A1 1959 risale la prima serie di lavori di Dine: sono le Heads, oli e acquerelli di piccole dimensioni che raffigurano solo una testa. Fin dagli esordi, l'artista ha le idee chiare, si tratta di composizioni autobiografiche: «I volti erano generici, ma rappresentano me, che tiro fuori le mie emozioni», spiegherà quarant'anni dopo. Nel 1960, per la sua prima personale, entrano già in scena gli oggetti. Sono cose qualunque, o capi di abbigliamento che aveva trovato nei bidoni dell'immondizia, che Dine inserisce nelle sue composizioni. Pochi anni dopo saranno sostituiti da oggetti nuovi, testimonianze biografiche che emergono dalla sua memoria.

RIBELLIONE. Il suo era un atto di ribellione nei confronti dell'Espressionismo astratto, che aveva mietuto un successo dopo l'altro per tutti gli anni Cinquanta, ma ancora di più contro l'idea, ancora dura a morire quasi mezzo secolo dopo le rivoluzionarie invenzioni di Duchamp e Schwitters, che si potesse produrre arte solo con le materie che gli artisti usavano da centinaia di anni. Nei primi lavori, come Shoe, del 1961, Dine rappresenta un solo oggetto. Può essere dipinto oppure reale, ma è sempre isolato e in posizione centrale. Poi le composizioni diventano più complesse e Dine arriva a mettere in scena vere e proprie stanze, le Rooms: lavori tridimensionali che si proiettano nello spazio dello spettatore. A11970 risalgono i primi Cuori, monumentali immagini di un cuore di San Valentino, quello degli innamorati, dipinte con le pennellate tipiche dell'Espressionismo astratto. L'antica metamorfosi dell'oggetto inanimato che prende vita è poi il soggetto dell'ultima serie di opere di Dine: l'icona di Pinocchio entra infatti nel suo immaginario visivo nei primi anni Duemila.