Recensioni / Cent’anni di sogni di cose. Ernst Bloch

A un secolo dalla pubblicazione di Spirito dell’utopia, il collettaneo di saggi Filosofia e politica in Ernst Bloch. Lo spirito dell’utopia un secolo dopo, a cura di Chiara Collamati, Mauro Farnesi Camellone, Emiliano Zanelli (Quodlibet, € 25) ripercorre il tragitto filosofico di Ernst Bloch. «Siamo diventati poveri e abbiamo disimparato a giocare». È l’inizio di uno dei primi capitoli di Spirito dell’utopia, “Produzione dell’ornamento”. Ricorda da vicino quel nesso tra povertà d’esperienza, ornamento e gioco che Walter Benjamin indagherà negli anni Trenta. Quello stesso Benjamin che aveva celebrato Spirito dell’utopia per aver «negato il significato politico della teocrazia». Quello stesso Benjamin che avrà sempre in sospetto Bloch, quell’uomo «dieci volte migliore della sua opera», perché troppo uso a prendergli le idee in prestito.
Quell’opera dieci volte peggiore dell’autore era Spirito dell’utopia, che da poco ha fatto un secolo. Era un’opera strana. Si parlò non a sproposito del suo debito con l’espressionismo – con quell’incipit sulla brocca, oggi francamente illeggibile, che fece tanto riflettere Adorno. Pur riprendendolo nel sottotitolo, il volume di saggi uscito di recente, arricchito da una bella intervista del 1962, non si limita affatto all’opera con cui Ernst Bloch prese il largo – filosoficamente parlando.
Il volume nasce da nove studiose e studiosi che hanno condiviso, con serietà ammirevole, un principio seminariale di discussione e commento, che di quello “spirito” prova a scorgere le tracce in tutto il percorso del Novecento. Per comprendere quel libro antico bisogna rileggere l’intera opera di Bloch, coglierne la genesi, i respiri in sincronia, i non-detti futuri. Lo spirito dell’utopia non è solo quel libro del 1918 rivisto più volte in vita, ma è qualcosa che anima sessant’anni di traversie filosofiche. Come a dire che non va indagato tanto il testo, quanto lo stato dell’arte dell’utopia tutta. Tutte insieme, le traversie, le riletture, le chiose e le cesure, spiegano quel testo. Perché a volte – questo Bloch, teorico della polifonia sincronica dei tempi, lo ha motivato bene – ci vogliono secoli a spiegare un paio di anni.
Ma partiamo dall’inizio: lo Spirito dell’utopia nasce figlio legittimo del biennio 1917/1918 che fu di fuoco, di crisi e palingenesi, «tra catastrofi ontologiche e nuove fondazioni» (come riassume icasticamente Gabriele Guerra nel saggio che apre il volume). Un biennio lontanissimo eppure, oggi, revenant da affrontare.Nella radicale differenza atmosferica (il maltempo brutale e fertile di quel biennio, la siccità prevalente oggi) è assai utile fare i conti con Bloch, intellettuale dalla vita lunga e accidentata, che andò in esilio durante le due guerre – la Seconda per ovvi motivi (era ebreo e comunista), mentre durante la Prima era cosa rara chiamarsi fuori dal gioco al massacro cui moltissimi intellettuali aderirono entusiasti. Dopo l’isolamento americano, andò nella DDR dove presto venne emarginato e si rifugiò all’Ovest, ma restò sempre eretico. Amico di tutti ma da tutti guardato con sospetto (da Benjamin, da Adorno, l’abbiamo visto, dal gemello diverso György Lukács, che ne aveva seguito i passi per tutti gli anni Dieci, da Hugo Ball che l’aveva scortato presso i gorghi chiliastici della Riforma). Troppo vorticoso il suo stile, troppo fumoso il lessico, troppo disparati i riferimenti per non qualificarlo con l’etichetta molto comoda di “Schelling marxista”, come fece un giovane e già anziano Habermas in una celebre lettura-stroncatura, Bloch ancora vivente.
Eppure Bloch resiste. Resiste il suo “politico” che va ripensato con la pazienza della talpa quando scava. Resiste in una riflessione che ridetermina l’ontologia in chiave processuale, che indica il moto della filosofia politica come “sapere della trasformazione” – formula di efficacia contagiosa ben illuminata da Farnesi Camellone. Per questo il volume non disdegna raffronti con altri pensieri, coevi o meno, come quello di Benjamin (lo fa Brandalise prendendo di petto la coincidenza di profano e messianico nel Frammento teologico-politico benjaminiano) o di Lukács, Sartre e Althusser (i saggi di Oulc’hen e Collamati), e si avventura in un pensiero che si nutre di Kant e di Hegel oltre che di Marx, degli stoici della “fantasia catalettica” e di Simmel (Zanelli).
Il politico di Bloch affonda le sue radici in un’antropologia tanto precisa quanto barocca, impregnata di un concetto di tempo finemente complesso e fondato su un intreccio sensuale di anticipazione e transizione, su una rifrazione di ricordi e speranze, che esprimono tutta la ricchezza delle nostre esperienze percettive. Perché l’idea di Bloch è di non contentarsi di postulare soggetti forti o deboli al cospetto di un mondo che mondeggia o che sta lì atto a ricevere, ma di concettualizzare una materia animata da un attivismo irrefrenabile. È quel “qualcosa manca” che lo accomuna al Brecht di Mahagonny e che – come recita il mirabile saggio di Catherine Moir sul suo “materialismo speculativo” – guida il processo dialettico di autorealizzazione della materia verso uno scopo finale. È il “Sommo Bene”, il totum utopicum, lo ricorda il contributo di Filauri, ovvero l’«elemento sperato più di ogni altra cosa nella speranza». Irraggiungibile, lo scopo finale popola i «sogni di cose» dell’umano.
È proprio questa espressione di un giovane Marx a Ruge a intrigare Bloch, che la media con la sua personale tesi dell’oscurità dell’attimo vissuto per definire una maieutica della latenza, che non si arrende alla realtà (su questo insiste Viero). L’utopia incistata di attualità è la filosofia al servizio del lavoratore alienato nella merce, oggettivato ma ancora autocosciente, oppure ammaliato da banditori d’irrazionalità che nelle epoche di transizione – è eredità di ieri, è storia di oggi – fanno leva sui diversi strati del non-contemporaneo che convivono coi processi di sviluppo, di crescita delle sfere economiche e sociali. Già, perché arretratezza e macchine mitologiche convivono coi processi di sviluppo e di crescita delle sfere economiche e sociali. E questo accade anche a livello individuale. Come in noi coabitano arretratezze e rimossi, così nella società gli strati di tempo si affollano, coesistono, vivono dialettiche di non facile composizione. Per essere all’altezza dei tempi bisogna intrecciarli, negarli, far detonare la dinamite che Bloch colloca sulla linea soggetto-oggetto, sfuggire alla chiarezza delle serie, cercare il non-luogo da cui arroventare un presente che suona infausto, per sottrarre spazi di agibilità alla reazione.
Nella temporalità “intermittente” di Bloch, nel suo finalismo che va a caccia «dei non-sensi aperti nella storia», c’è la sanzione – il monito prezioso – del carattere sempre precario dell’ordine. Che è «impermanente», ricorda Farnesi. Ce lo dice con chiarezza la nostra esperienza del tempo, il nostro rapporto con la memoria, le nostre rimozioni e i recuperi imprevisti, le anticipazioni in cui figuriamo quel che non è ancora, quel che non ha luogo. Difficile disconoscere il nostro rapporto opaco con l’esistenza – eppure l’invito alla schematizzazione, alla cristallizzazione di prassi e condotte, è perpetuo. Sull’altro versante, quello blochiano, il rischio è quello di una fascinazione decisionistica dell’attimo, così esaltato nella sua complessità da guadagnarsi un’immagine fin troppo mitica. Oppure, viceversa, di perdersi davvero, come l’avo Schelling, «nella sua concezione della natura come soggetto inconscio ma produttivo» (Moir). Come mantenere la tensione tra tendenza e latenza senza smarrirsi in romanticismi dell’attimo o della materia? C’è un “inciampo” nella filosofia di Bloch, avverte ancora Farnesi, e sta nella composizione dell’anticipazione e della transizione. Non c’è – neppure in Bloch che dedica tomi enormi alla “speranza” – una sintesi soddisfacente tra i due momenti. Tra il passaggio ordinario e faticoso del presente e l’attimo in cui il futuro – il non contemporaneo – preme sul dato, sulla condanna dell’anamnesi e ci appare come espressione presaga proprio mentre ci incontriamo con noi stessi –, tra i due momenti non c’è accordo agevole, c’è un’aporia da percorrere con fatica. Utopia – il taglio coi luoghi, coi dati – è parola pesante. Tanto più oggi, tra fallimenti, criminalizzazioni e retoriche ciniche travestite da realismo. Se la politica è “l’arte del possibile”, se è “consapevole formazione della storia” – dice Bloch nel 1962, a un anno dalla costruzione del Muro, pietra tombale di tanti attimi utopici –, come dare forma a quel non-luogo gravido di immagini di libertà, all’altezza di un tempo, il nostro, così povero di immagini “altre”?
Nell’eccedenza della materia a ogni forma, politica è innanzitutto rifiuto di vagheggiare armonie quando è tempo di conflitti, rammenta Bloch. Perché è «in questo modo che i nazisti hanno fatto i loro affari: bevete a volontà, mangiate a sazietà, e non dite una parola su quanto accade in città».