UN VIVAIO PER VIRTUOSI DELLA PAZIENZA
Petter Moen fu arrestato il 3 febbraio del 1944 dalle forze di occupazione
naziste presenti in Norvegia già da quattro anni. Venne imprigionato
nel carcere di Oslo, sede della Gestapo, il cui indirizzo dà il titolo al diario
che presentiamo: Mollergata 19, un «vivaio per virtuosi della pazienza»
come lo definirà lui stesso. Al momento dell'arresto, avvenuto durante il
cosiddetto Pressekrakket, «crollo della stampa», Moen era il responsabile
dell'intera stampa clandestina, compresa una delle testate più diffuse, il
«London-Nytt», di cui era stato precedentemente redattore e che si richiamava
esplicitamente al bollettino di «Radio Londra». Personaggio di spicco
della resistenza norvegese, Moen iniziò a scrivere il suo Dagbok incidendolo
con una punta di metallo sull'unica carta presente nella sua cella d'isolamento,
quella igienica, che veniva traforata, perlopiù al buio, senza la possibilità
di rileggere lo scritto. Meticolosamente, bucherellate cinque pagine,
il prigioniero le raccoglieva in un sesto foglio che numerava, chiudendone
poi le estremità a formare una specie di sigaretta, che infilava nella grata
della presa d'aria della sua cella, senza peraltro sapere dove sarebbe finita
né se qualcuno l'avrebbe mai letta.
Trascritto faticosamente dopo la guerra, il diario venne pubblicato in
Norvegia già nel 1949 e tradotto in molte lingue. Una delle testimonianze più
importanti delle persecuzioni del Novecento viene finalmente pubblicata
per la prima volta anche in Italia da Quodlibet, a cura di Maurizio Guerri,
che firma, oltre al ricco apparato di note, anche l'illuminante saggio
Scrittura ed etica della resistenza, senza il quale il lettore mancherebbe
di uno strumento di lettura tanto utile quanto necessario. Vi si delinea la
complessa costellazione nella quale la confessione di Moen si inserisce, si
ripercorrono le ragioni e la forma della scrittura legata alla testimonianza,
quando l'esperienza dello scrivere di sé eleva la condizione della vittima a
quella di testimone e, da questa, a quella di narratore, toccando i momenti
alti della letteratura del Novecento. In particolare, nel suo Trattato del
ribelle, Ernst Jünger si spinge a indicare in Moen «il discendente spirituale
di Kierkegaard», rappresentante di una letteratura che si dimostra tanto
più potente quanto meno è mossa da velleità letterarie.
IL DISCENDENTE SPIRITUALE DI KIERKEGAARD
Tra il febbraio e il settembre del 1944, durante i sette lunghi mesi di prigionia
alla Mollergata, Petter riuscì a incidere un migliaio di pagine. I1 primo
dei suoi appunti è datato 10 febbraio e viene scritto nella cella D2, dove
rimase in isolamento fino al 21 aprile. Data che segna il punto di passaggio
dal «turbato enten-eller della cella singola», alla «grigia e amara filosofia del
"tirare avanti"» provocata dalla condivisione del carcere con dei probabili
criminali comuni (in pochi metri quadri!): «Il motivo è semplice: il silenzio
fa male, ma parlare di ciò per cui si prova nostalgia è dieci volte peggio». Il
primo appunto è emblematico dell'intero scritto che, lungi dal rivelare un
intento letterario, mostra piuttosto il disperato bisogno di render conto,
anzitutto a se stessi, di ciò che si sta vivendo in circostante estreme:
DAL 7° GIORNO DELLA MIA PRIGIONIA A MOLLERGATA 19
(Giovedì 10 febbraio)
Mi hanno fatto due interrogatori. Mi hanno frustato. Ho tradito Vic.
Sono debole. Merito disprezzo. Ho una terribile paura del dolore. Ma non
ho paura di morire.
Stasera penso a Bella. Piango perché ho fatto molto male a Bella. Se
vivrò, io e Bella dobbiamo avere un bambino.
È il primo, doloroso tentativo di riacquistare una qualche presa sulla
dura, durissima realtà della propria condizione. Petter intraprende così
un dialogo con se stesso: si condanna e si conforta convocando la moglie,
Bergliot S.V. Gundersen (1908-1984), affettuosamente soprannominata Bella,
sposata quattro anni prima, arrestata con lui e internata nella prigione
Lager di Grini (dove rimase fino alla liberazione). Nelle pagine che seguono
il prigioniero, orfano di una trascendenza consolante, si confronta con la
propria vicenda interiore, arrivando a viverla nei termini di una prova spirituale,
mettendo in discussione il proprio tacito ateismo senza peraltro cedere
alla tentazione di una fede ingenua e consolatoria, evitando accuratamente
di confondere l'esperienza religiosa con un conforto a buon mercato. In principio,
il 10° giorno di prigionia, invoca il Dio onnipresente dell'educazione
ricevuta dai genitori, attraverso un disperato richiamo alla madre:
È domenica 13/2, il compleanno e il giorno della sepoltura di mamma.
Sia eternamente benedetta. Oggi voglio trovare pace nella memoria di
mamma. Se solo avessi un cuore coraggioso come il suo. Allora l'angoscia
perderebbe il suo potere su di me. Mamma pensava sempre agli altri. In
questo era la sua forza. E nella sua fede in Dio. Mamma! Dammi il tuo
cuore forte e la tua fede! Ne ho tanto bisogno!
I1 16° giorno, provato dall'esperienza alla Victoria Terrasse, l'edificio
nel centro di Oslo dove la Gestapo interrogava i prigionieri e significativamente
definita come «il grande terrore», Moen intraprende una sorta di
meditazione sulla morte e sul proprio «bisogno di Dio» quale risultato della
detenzione e della tortura. Il prigioniero, impaurito e disincantato, ma mai
rassegnato, si chiede se la religione possa rivelarsi una scelta sensata, se la
fede possa soddisfare la propria angosciosa ricerca e farlo approdare a un
principio stabile, capace di dare senso al mondo:
Mi preparo ogni giorno al fatto che sofferenze e morte possano essere
il mio destino. Spesso ho molta paura e dentro di me è una ferita sanguinante
il fatto che i maltrattamenti alla V.T. mi abbiano costretto lontano
dalla via del silenzio. La tortura è più immorale dell'omicidio. Ora è
troppo tardi per pentirsi. Forse Dio e i miei compagni saranno clementi
con me? Vorrei che uno solo fosse fucilato per tutti, e che fossi io.
Qualche parola nella luce del giorno che si spegne: il mio "bisogno
di Dio" è sincero? Può essere un argunrentum ad hoc, un prodotto della
prigionia. É stato affermato che la fede in Dio ha origine dall'angoscia
—angoscia per la natura e angoscia per la morte. In tal caso sono sulla
strada giusta. Credo di poter "trovare Dio" attraverso la sofferenza,
l'angoscia e la preghiera. Ho fatto di me un pezzo di bravura? La pratica
spirituale ha fatto il maestro? [..,] Io cerco dentro. Se avessi una Bibbia!
O le Pensées di Pascal. Qui nella prigione nazista non c'è Bibbia né Pascal
— solo baccano.
Al culmine del suo smarrimento, dopo giorni di sgomento di fronte a
un Dio che si mostra sordo e muto, ma che genera tanto «rumore» nella sua
coscienza, Petters intravede una speranza di salvezza, un punto fermo.
Il 20° giorno l'ostinato silenzio di Dio diventa l'occasione di un disperato
atto di fede. Come non pensare, en passant, alla celebre trilogia di Ingmar
Bergman, presente fin nella scelta delle parole («Come un memento strano
e spaventoso a queste riflessioni, attraverso il silenzio del venerdì santo
risuona una serie di grida»)?:
Ho pregato sinceramente Dio per il mio futuro — di poter diventare
qualcosa di diverso dal misero uomo che sono stato per tutta la mia vita.
Per me è questa la salvezza. Prego così: non farmi essere un vento che
soffia ora qui ora lì ma fammi essere il grano che matura.
Tuttavia questa pseudo serenità dura poco. Il giorno successivo, il 21°,
il prigioniero teme di dover subire un altro interrogatorio e precipita nella
«tormentosa inquietudine di essere costretti a nuove delazioni». La latitanza di Dio nel disincanto della V.T. lascia un gran vuoto. E tutto vacilla
nuovamente:
Stamattina andrò probabilmente alla V.T. E qualcosa di assolutamente
mostruoso. Ho paura dei maltrattamenti. Prego Dio di aiutarmi. Lui
ora è il mio unico sostegno.
Donnerwetter ha fatto una perquisizione! Non ha trovato il mio
diario. Sta ordinatamente attaccato sul chiodo della carta igienica. Non
ha trovato la mia penna. E un perno della tenda da oscuramento: I miei
"scacchi" erano nel calzino sul gancio proprio davanti al suo naso. Perquisizione
nella nuda cella di un prigioniero — anche questo è Gestapo...
Ho sete e faccio pipì. Angoscia e tensione. Signore mio! Presto sarà
un'abitudine avere paura. Facciamo una dura lotta. Forse me la caverò.
Un nuovo esempio della pressione psicologica qui: il postino mi mostra
dallo sportello il mucchio di lettere — mi porge una lettera e dice: E
per te? Naturalmente c'era un altro nome. Bisogna essere idioti per non
capire lo scopo di certe cose. Spero che i miei compagni comprendano
questi piccoli trucchi. Se compresi sono innocui. I piccoli uomini che
hanno inventato certe cose vogliono dominare il mondo. Nonostante tutte
le loro chiacchiere su Gross e Reich i tedeschi sono limitati. Per non
parlare della Gestapo. Non c'è accenno a una "morale del dominatore".
SE IO NON FOSSI QUI Ci SARESTI TU
L'ideologia nazista viene stigmatizzata con lucida consapevolezza da
Moen anche il 4 marzo, giorno in cui l'evocazione della tortura di massa
perpetrata dai nazisti, la «via dolorosa umana e terrena che molti uomini
e donne innocenti hanno dovuto percorrere» (nel diario vengono citati, più
avanti, tra gli altri, anche Sacco e Vanzetti), sembra privarlo di ogni fede:
30° GIORNO ALLA M 19. "La tirannia nazista" è una realtà per
noi "delinquenti" politici. Sappiamo cosa significa e proprio per questo
siamo disposti a sacrificare molto nella lotta contro di essa. lo sono preparato
a morire per questa causa. La morte è una conseguenza amara
ma "pulita". Quelli che io e probabilmente tutti i prigionieri dei nazisti
temiamo più della morte sono i maltrattamenti. Non ci sono parole capaci
di esprimere i miei sentimenti nei confronti della tortura di massa che qui
viene esercitata. Mi priva di ogni fede. Io dico: come può Dio lasciare che
questo accada? Il pensiero si ferma dì fronte a questo problema. Alcuni
forse vengono condotti sulla via della riflessione tramite la sofferenza ma
i più? Si può finire rapidamente nella disperazione e nel rinnegamento.
Pian piano, dalle pagine trapela una consapevolezza nuova. Allo smarrimento
morale che aveva aperto la strada a Dio, «quando poi — dopo molto
tempo di onesta preghiera — non avviene nulla subentra una consapevolezza
etica nuova. La religione sembra adesso una fuga sentimentale ma
illusoria da sé, una «caramella teologica», e l'ateismo si risolve compiutamente
nell'impegno dell'uomo, che riporta in primo piano l'azione politica.
In uno dei tanti rimandi a Shakespeare, qui ovviamente al Giulio Cesare,
Petter scrive:
15 MARZO — il giorno della morte del tiranno! Ma il mondo partorisce
sempre nuovi tiranni. Nelle prigioni ci sono sempre uomini che hanno
alzato la voce o la mano contro ingiustizia e violenza. Vale la pena allora
di fare questa lotta? Sì e ancora sì. Ogni libertà sarebbe presto soffocata
senza di essa e senza le vittime che richiede. La lotta norvegese per la
resistenza ha portato noi 300 qui al numero 19. Non mi pento di niente
di ciò che ho fatto o scritto e mi dispiace solo di ciò che non ho fatto.
Nelle prigioni dei nazisti devono esserci degli uomini. Se io non fossi qui
ci saresti tu — tu che ancora sei libero. Ansimo sotto il giogo — ma non
vorrei non aver fatto ciò che ho fatto.
Certo, la consapevolezza di fronte al proprio inevitabile tradimento
martella impietosamente la coscienza di Petter. Il 19 marzo, 45° giorno,
scrive:
...Anche io avrei voluto essere un uomo coraggioso. Non lo sono.
Avrei potuto lasciare che le bestie della V.T. mi facessero a pezzi e tacere
— tacere. Non ce l'ho fatta. L'angoscia e il dolore mi hanno spezzato. Nel
corso di una serie di interrogatori i segreti mi sono stati tirati fuori.
Mi vergogno a tal punto di questo che non ho voglia di incontrare
nessuno dopo la guerra. Spesso penso: la cosa migliore sarebbe una condanna
a morte. [...]
Se questo dovesse finire con la morte vorrei che il mio diario fosse
salvato. [...]
Ogni parola e ogni frase qui sono scritte col contributo della capacità
che ho di sentire e di pensare. Ho cercato di essere sincero — di non
abbellire per guadagnarmi una lettera dorata nella fama postuma e non
diffamarmi per avere la lode della vergogna. Scrivo sotto la minaccia di
un pericolo che è più grande di quanto possa permettermi di dire. Alcuni
forse avranno difficoltà a capire la mia angoscia per la sofferenza e il
dolore se apparentemente sono preparato a morire. Il dolore è cosciente.
E la morte — Già che cos'è la morte?
Petter Moen lo scoprirà presto, l'8 settembre di quell'anno, quando
la nave tedesca Westfalen_, sulla quale era stato condotto due giorni prima
insieme con altri cinquanta prigionieri per essere deportato in Germania,
affonda nello stretto di Kattegat in seguito alla collisione con due mine. Dei
cinque sopravvissuti, uno aveva raccolto la confidenza di Moen su questo
diario. E grazie a lui che, dopo la guerra, sotto il pavimento delle celle dove
era stato rinchiuso, la polizia norvegese troverà intatti tutti i fogli.