Recensioni / Daria Biagi, Orche e altri relitti. Sulle forme del romanzo in Stefano D’Arrigo

La figura di Stefano D’Arrigo è circondata da un’aura di eccezionalità, legata alla ventennale composizione, scrittura e riscrittura dell’opus magnum di Horcynus Orca (1975) e alla sua presunta illeggibilità: un romanzo di oltre 1200 pagine, caratterizzato da una struttura magmaticamente digressiva e da una scrittura mistilingue, e gravato da un denso palinsesto mitologico-letterario. La storia del viaggio di ritorno del reduce ’Ndrja Cambrìa dopo l’armistizio del 1943, attraverso lo stretto di Messina e fino al paese natale di Cariddi, rimane un testo di difficile collocazione, più citato che letto anche tra gli addetti ai lavori. La monografia di Daria Biagi libera l’autore e la sua opera dallo stato di ex-centricità e grazie all’analisi di testi e paratesti (dagli epistolari ai materiali d’archivio) dimostra come gli elementi più originali del progetto letterario di D’Arrigo rispondano a sollecitazioni della cultura del suo tempo, a partire dagli anni della formazione.
Le sezioni su Hölderlin, cui lo scrittore dedicò la tesi di laurea nel 1942, aprono uno spaccato sulla ricezione del poeta tedesco negli anni tra le due guerre. Più che la lettura dannunziana e ungarettiana, a rivelarsi fonte di ispirazione per D’Arrigo è quella veicolata dall’ermetismo fiorentino, a cui sono riportate sia precise suggestioni tematiche, visibili sin dalle liriche di Codice siciliano (1957), sia la riflessione sul linguaggio e i suoi limiti espressivi. Nel capitolo su Il compratore di anime morte – un inedito che trasporta il poema di Gogol’ dalla Russia zarista alla Sicilia del 1859, rinvenuto dalla studiosa tra le carte del Fondo D’Arrigo e databile tra i tardi anni Quaranta e i primi anni Cinquanta – D’Arrigo è inserito invece sia all’interno della tradizione dei narratori che hanno raccontato da un punto di vista siciliano l’unificazione nazionale e la tarda o forzata modernizzazione dell’isola, sia nel contesto culturale e politico della prima età repubblicana, in cui all’immaginario risorgimentale si sovrappone quello resistenziale. L’ultimo capitolo, dedicato a Cima delle nobildonne (1985), romanzo che nell’ambientazione nord-europea e nella sobrietà stilistica prende le distanze dalla produzione precedente, conferma il permanere dei rovelli artistici e ideologici di sempre, qui modulati a contrasto con l’opera maggiore: la concertazione dei linguaggi, l’interrelazione di vita e morte, il rapporto tra cultura arcaica e tecnologica.
Al centro del volume è una serrata indagine linguistico-narratologica di Horcynus Orca. È in particolare la paraetimologia, e in specie l’etimologia popolare, a essere individuata come pietra angolare nella costruzione del romanzo, poiché, oltre a sottenderne l’inventiva linguistica, dà ai processi mentali dei personaggi dignità pari a quelli del lettore, divenendo dunque matrice del disegno narrativo e principio guida del percorso interpretativo. Mettendo proficuamente in dialogo filoni talvolta separati della critica darrighiana (e dello studio della narrativa tout court: le questioni di lingua e stile da un lato, le strutture e i temi dall’altro), l’autrice propone un’indagine rigorosa della forma romanzo, che lega la micro-analisi di parole-simbolo e del loro contesto narrativo al discorso di narratore e personaggi, per arrivare a considerazioni di poetica e ideologia. La polifonia e la «patologica logorrea» di Horcynus Orca sono lette quindi come parte della strategia su cui si fonda la narrazione di due traumi coincidenti, quello della guerra e quello della fine di una comunità premoderna (De Martino qui funge da guida, arricchendo l’impianto di base bachtiniana). Raccontando questo trapasso epocale, il romanzo registra sia i percorsi di adattamento al nuovo sia le resistenze individuali come quella del protagonista, necessarie per il soggetto anche se fallimentari: residui di norme sociali e concezioni della vita di un «mondo di prima» che viene narrato ma non mitizzato, della cui fine sono simbolo le carcasse marine e gli altri relitti che popolano l’opera di D’Arrigo.