In più di sessant'anni di
storia dell'arte contemporanea il suo è uno di
quei nomi che non mancano mai: Jim Dine, classe 1935, nato a Cincinnati
(Ohio), professione artista.
Un nome esploso nella leggendaria New York del secondo dopoguerra e consacrato
già a partire dalla Biennale del 1964 (Venezia), quella che decretò la supremazia
dell'arte americana sul secondo Novecento.
Chiamatelo pop, Mr. Dine.
Chiamatelo neodadaista.
Chiamatelo pittore, performer, scultore o poeta... A lui le
etichette, le definizioni, non
sono mai piaciute. E tanto più
a 85 anni, come dice egli stesso, «mi sento libero di fare
quello che voglio. Ora eccomi
qua... sono venuto a mettere
un po' in disordine questo Palazzo». Il Palazzo è il Palazzo
delle Esposizioni, dove ieri si
è inaugurata una sua personale con ottanta opere dal
1959 a oggi, curata da Daniela
Lancioni in stretta collaborazione con l'artista, il quale ha
voluto partecipare a tutte le
fasi dell'«impaginazione»
della rassegna, dall'ideazione
all'allestimento. «Il mio lavoro? È tutto. Le mie opere sono
la mia autobiografia, il resto
sono solo parole» ha detto ieri rispondendo alle mille domande della stampa.
Oggi Jim Dine vive pressoché stabilmente a Parigi. E da
Parigi arriva un significativo
nucleo di quadri, quelli prestati per la mostra dal Centre
Georges Pompidou, principale partner di questa iniziativa,
al tempo donati al museo dallo stesso artista. Poi ci sono gli
altri prestiti: dal Whitney di
NY, dalla collezione Sonnabend e da svariate altre istituzioni pubbliche e private, italiane e internazionali.
Tutto Dine in otto sale, con
il taglio tipico dell'antologica
che muove dagli esordi (serie
di autoritratti di matrice tardo
espressionista, documenti video della stagione performativa) e arriva fino ai recenti anni Duemila. Un percorso che
si chiude con una grande
stanza-installazione gioiosamente invasa da Pinocchi
d'ogni foggia: piccoli, grandi,
colorati, in catene... Un inno
alla fantasia creatrice che il
personaggio di Collodi —
«creatura meravigliosa portatrice dell'antica metamorfosi
dell'inanimato che prende vita» — incarna alla perfezione.
Ovviamente, tra inizio e fine, non mancano molti dei
quadri di Dine divenuti vere e
proprie icone del radicalismo
tardo novecentesco: come
quella Scarpa che è solo una
scarpa (dipinta) e con la scritta scarpa («Shoe») su una
grande tela grezza, uno degli
otto lavori (di cui cinque in
mostra) presentati a Venezia
'64. E ancora — in un caleidoscopio di forme che rivela in
primis la libertà della creazione — i quadri con abiti appesi, quelli con gli oggetti della
quotidianità incorporati nella
superfice dipinta e infine i
mille Cuori colorati divenuti,
nei decenni, un po' il tratto distintivo del suo fare artistico.
«Jim Dine»,
da oggi
al 2 giugno,
Palazzo delle
Esposizioni, via
Nazionale 194.
Promossa da
Roma Capitale
- Assessorato
alla Crescita
culturale.
Catalogo: Quodlibet