Recensioni / Ancora troppo poco

Questo a guisa di epitaffio e perifrasi potrebbe essere il saluto per Stefano Scodanibbio, troppo presto tolto a una vita ricca e fuori dal coro.
A ben vedere non ricordo in che occasione avvenne il nostro primo incontro; forse in occasione della prima del Prometeo di Nono a Venezia nel 1984.
Ricordo che vi era molta eccitazione attorno al nuovo mondo sonoro che Nono, coadiuvato dal suo gruppo, più un gruppo rock come mentalità che un ensemble di musica contemporanea (nel senso che Nono fonderà spesso sulla comunicazione orale – oralità secondaria – piuttosto che sulla scrittura tradizionalmente intesa la trasmissione, il successo potremmo dire, della sua musica) stava mettendo in piedi in quei giorni.
Nel settembre del 1984 insieme al flauto di Fabbriciani, al clarinetto di Scarponi, a tuba e trombone di Giancarlo Schiaffini compare il contrabbasso di Stefano Scodanibbio, allora appena ventottenne; l’esecuzione a San Lorenzo fu affascinante anche se come molte delle cose di Nono da quel periodo in poi, non definitiva.
L’arco “mobile” di Stefano si adattava a pennello alle ricerche sullo spazio di Nono, provvedeva a fornire alla musica – anche quella suonata da un solo strumento ad arco – una dimensione di mobilità e proiezione spaziale che Nono cercava incessantemente (a partire da quello strumento forse unico e irripetibile costituito dall’arca di Renzo Piano, cassa di risonanza costruita ad hoc e in grado di valorizzare le minime variazioni del corpo sonoro cui le voci e gli strumenti, anche trasformati dall’elettronica, davano vita).
In quegli anni a Milano davo vita, con Emilio Pomarico, alla Sezione Musica Contemporanea della Civica Scuola di Musica – esperienza didattica e di informazione per molti versi ineguagliata nella Milano di quegli anni – ove si invitavano a fianco dei compositori protagonisti della scena internazionale (vennero Stockhausen, Nono, Carter, Xenakis tra gli altri e poi Grisey, Ferneyhough, Donatoni, Dufourt), gli interpreti dediti alla sperimentazione e al nuovo repertorio; Stefano non poteva certo mancare tanto più che col passare del tempo la sua ricerca si affinava, si faceva – a un tempo – più personale e più universale. In un periodo in cui essere virtuosi voleva dire – soprattutto – suonare più velocemente e sempre alla ricerca del registro iperacuto – Scodanibbio, con il suo scatolo sonoro – cosi chiamava il contrabbasso – esplorava il registro grave quasi a ribadire che non è la velocità pura e semplice che andava ricercata quanto la qualità del suono, il timbro, il Klang, il sound.
La sua ricerca contemplava due direzioni solo apparentemente contraddittorie: da un lato Ferneyhough, Estrada, Xenakis con la loro minuziosa scomposizione del suono, dall’altro Cage e Riley – e Sciarrino – con la loro – solo apparentemente naive – contemplazione di un suono ricomposto.
Nel 1990 alla Civica in un concerto indimenticabile Scodanibbio con Arditti e de Saram presenterà musiche di Donatoni, Xenakis, Ferneyhough e dello stesso Estrada, invitato per una masterclass di composizione; da quel momento in poi Stefano si mostrerà sempre più interessato ai suoi pezzi, alla sua composizione che, naturalmente, si estese da subito al di là del contrabbasso.
A essa è dedicata la terza parte del libro che dimostra, se ce ne fosse bisogno, l’estensione della sua impresa:

Note ai pezzi
o Voyage That Never Ends; Sei studi; Julio Estrada, Yuunohui’nahui; Alisei; My new address; Quando le montagne si colorano di rosa; Escondido; Geografia amorosa; Dos abismos; Mar dell’oblio; Postkarten; Oltracuidansa; Lugares que pasan; Altri Visas; Alfabeto apocalittico; Only connect; Ritorno a Cartagena; Wie der Wind es trägt; Da una certa nebbia; Mas lugares (su Madrigali di Monteverdi); Terre lontane; Luciano Berio, Sequenza XIV; ... and Roll; Canzoniere messicano; Interrogazioni alle vertebre; Commedia del corpo e della luce; Ottetto.

Il libro comprende altre due parti:

Ritratti ed echi
o Echi di un’avventura; Idiomi, viaggi, strumenti musicali; Sul Rinascimento strumentale; 25a rassegna; Il grande anonimo del Ventesimo secolo; Luciano Berio. Il piacere di suonare; I miei anni con Gigi; Che sarei senza ES?; Per Conlon; Appunti su Giorgio.

Taccuini 1977-2011
ed è preceduto da una nota editoriale (Battito e forma) di Giorgio Agamben (il filosofo che assieme a Edoardo Sanguineti – con cui lavorerà a Postkarten, per voce recitante – lo stesso ES – e contrabbasso – è uno dei riferimenti letterario-filosofici di Scodanibbio) in cui il filosofo, in uno struggente omaggio all’amico perduto, ne ripercorre i temi più cari (trascrizione e improvvisazione, corpo e morte, vizio e virtù).
Stefano passerà sempre più tempo in Messico, “ma il suo Messico non era un luogo geografico, era un luogo dello spirito incarnato in sapori e odori... un’Arcadia crudele e riarsa” (Agamben) dove, complice Julio Estrada, si ritrovava... dove “ci sono anch’io”; terra d’elezione per nascere e – se ciò non fosse stato più possibile – per morire.
Altre figure sono importanti nel descrivere la traiettoria non solo musicale di Scodanibbio:

• Scelsi con il suo alone di mistero che gli italiani impareranno a disvelare – come spesso loro accade – per mano straniera (ricordo uno Holland Festival dedicato all’Italia del 1986 in cui il compositore spezzino era in assoluto – e controcorrente – il più eseguito) che lo stupirà commentando con favore le opere di Xenakis;

• Cage e gli impossibili Freeman Etudes, scritti per violino (commissione di Betty Freeman per Paul Zukovsky) che Stefano osò trascrivere per il contrabbasso; fu in occasione di un’esecuzione del suo brano che Cage esclamò “Stefano Scodanibbio is amazing, I haven’t heard better double bass playing than Scodanibbio’s. I was just amazed. And I think everyone who heard him was amazed. He is really extraordinary. His performance was absolutely magic”.

Di Terry Riley mi permetterò un ricordo personale...
Nel marzo 2005 alla Scuola Civica di Milano mettemmo in programma In C di Riley, appunto, con Riley e Scodanibbio a “dirigere” un gruppo aperto di strumentisti in quella che è una partitura disarmante per la sua “apparente” semplicità: minimalista, provocatoria, aperta, in forma di prova aperta a tutti, il contrario insomma dell’avanguardia. Fu un successo enorme ma quello che mi preme ricordare è un’osservazione che poi con Stefano e Riley facemmo in seguito... non è che attraverso i 53 moduli di questo gigantesco Do –non sempre sol Do a dir la verità – si fece strada (l’anno era il 1964) quell’esigenza di sentire il suono in modo radicalmente diverso che, per esempio, Stockhausen mostrerà in Stimmung (1968) e gli spettrali qualche anno dopo?