La mattina dopo
le elezioni in Emilia-Romagna un sole imprevisto,liberatorio, prende di infilata il
sesto piano a picco sulle antiche mura
della città dove abita Piergiorgio Bellocchio, ottantotto anni appena compiuti e portati benissimo, uno dei massimi saggisti del nostro paese. Il suo
nome, nel senso comune, è legato ai
«Quaderni Piacentini», la rivista di politica e cultura redatta con Grazia
Cherchi e Goffredo Fofi fra il 1962 e il
1984 che fu battistrada della nuova
sinistra italiana. Il buonumore di Bellocchio non nasconde la perplessità e
il distacco dell'ironia, etimologica distanza dai fatti della politique politicienne, un tratto che in lui è nativo e
che il tempo ha marcato ulteriormente:
«La bella notizia di questa mattina, no,
proprio non me l'aspettavo, ma va anche detto che io non seguo da vicino la
politica attuale, non riesco a distinguere bene a parte quei due o tre leader,
e poi il livello è quello che è. Se penso
che attaccavamo la Dc, Palmiro Togliatti... li sto rivalutando, si trattava
di persone che si erano battute contro
il fascismo, che avevano corso dei rischi e il loro non era certo un mestiere.
Non lo nascondo, oggi io mi sento un
allievo di George Orwell, un socialdemocratico o forse un anarco-sociale,
mi sento sempre più un riformista e mi
accontenterei che funzionassero alcune cose essenziali come per esempio la
sanità pubblica, che qui in Emilia Romagna è di livello molto elevato».
FUORI COMMERCIO
Il nome di Orwell torna fatalmente nei
discorsi e nelle pagine di Bellocchio,
abituato a discutere di letteratura attraverso gli assetti della polis, fedele al
nesso di libertà e di giustizia sociale che
innerva la sua saggistica raccolta in
titoli che il tempo ha reso emblematici:
fra gli altri Dalla parte del torto (Einaudi, 1989), L'astuzia delle passioni (Rizzoli,1995) e, già
venato di malinconia per la
mutata qualità
dei tempi,
Al di sotto della mischia
(Scheiwiller,
2007) dove continua il dialogo
non solo con i compagni di sempre, da
Franco Fortini e Cesare Cases a Edoarda Masi e Renato Solmi; ma anche con
le stelle fisse della sua costellazione,
Simone Weil e, appunto, George Orwell,
lo scrittore di atroci distopie e di Omaggio alla Catalogna, soprattutto il pubblicista fanatico sostenitore della
eguaglianza tra gli esseri umani. Politica per Bellocchio vuol dire essenzialmente la capacità di cogliere nella normalità comunicativa (che si tratti di una
pagina letteraria, di un film, di un fatto
di cronaca) il peso dei conflitti sociali e
dei rapporti individuali.
Solo i suoi amici sanno che da oltre
trent'anni lo scrittore tiene un personale Zibaldone, qualcosa di molto simile al diario di lavoro, Arbeitsjournal, di Bertolt Brecht, le cui pagine associano ritagli di giornali, illustrazioni e annotazioni, motti e
aforismi stesi in una grafia che ne duplica lo stile di esemplare limpidezza.
Bellocchio li chiama semplicemente i
suoi Quaderni; quelle che appoggia
adesso sul divano sono appena tre o
quattro delle oltre 200 agende che formano il suo continuum diaristico,
grossi quaderni rilegati presi a suo
tempo da un vecchio cartolaio, e oggi
fuori commercio. Una vera e propria
miscellanea dove, aggiunge Bellocchio,
«è ancora possibile continuare un colloquio che ormai non è tanto rivolto a
un pubblico presente quanto a chi verrà dopo di me». E qui va ricordata l'altra rivista cui si lega il nome dello scrittore, «Diario», redatta nei pieni anni Ottanta con Alfonso Berardinelli, che nei
numeri monografici — memorabile
quello sulla ideologia italiana — sfruttava sia pure in minima parte il giacimento di questi Quaderni
.
Bellocchio teme che l'assenza di un
indice renda poco intelligibili certe sue
annotazioni più remote, ma si tratta di
un inganno ottico perché anche ad
apertura di pagina il testo appare molto chiaro così come le didascalie che
hanno forma, talvolta, di clausole in
versi: «...ecco, qui c'è la foto di un maestro secolare, Leone Ginzburg, che tiene
sulle ginocchia il piccolo Carlo... questo
invece è un Guttuso del '67 che assimila la testa di Che Guevara a quella del
Battista deposta su un piatto d'argento,
ma l'effetto è terribile, tra la macelleria
e il ristorante... Forse oggi non mi occuperei più tanto
della piccola
pubblicità che
una volta mi
colpiva, oggi
sfronderei
molte cose,
però confesso
che mi piacerebbe pubblicare magari
soltanto un estratto dei Quaderni seguendo un filo, un qualche ordine. Ritagliare e incollare è sempre stata una
mia passione, fin da piccolo, e mi viene
in mente mia madre, nata nel 1902, molto credente, che ogni tanto cestinava
scartoffie, vecchie carte inutili, e però
quando trovava una immagínetta sacra, un santino, allora lo bruciava per
salvarlo da mani blasfeme, da cattivi
usi. Oltre che annotare il presente anche io, a mio modo, cerco di salvare delle immagini che possono essere le più
dissimili - qui per esempio
c'è un bellissimo Sironi,
poi immagini di comunisti tedeschi degli anni
Venti, credo fotografie di
August Sander, poi ancora un manifesto antisemita, più avanti il volto
di James Dean e
quello di un giovanissimo Goffredo
Fofi... Mi fermo un
attimo, perché c'è
l'immagine del Pinocchio illustrato da
Enrico Mazzanti, un grande libro che
ho molto amato, un libro tragico che
legge nel profondo la natura del nostro
paese».
LETTERATURA PRIMO AMORE
Anche se oggi affermerebbe volentieri
il contrario, Bellocchio torna sempre al
suo amore primordiale, come attesta,
elegante nella cura dell'amico Gianni
D'Amo, l'antologia Un seme di umanità. Note di letteratura (Quodlibet) che
seleziona da circa quarant'anni di partiture saggistiche i cui referenti vanno
da Casanova a Herzen, da Dickens (forse l'autore più suo grazie alla mediazione di un maestro prediletto, Edmund
Wilson) a Flaubert e Céline, da Orwell,
ovviamente, a Pier Paolo Pasolini e Beppe Fenoglio. Senza escludere un outsider delle scienze sociali, quel Danilo
Montaldi con cui la cultura italiana ha
tuttora un conto aperto, né un cineasta
del rango di Stanley Kubrick: il suo Barry Lyndon (1975) fu ritenuto un esercizio calligrafico dalla sinistra intellettuale di allora, mentre Bellocchio lo
leggeva acutamente nei termini di un
film sulla lotta di classe e sul dispotismo economico. A riprova di una vocazione saggistica che rigetta le metodiche a lungo dominanti nel secolo scorso - contenutismo da un lato e formalismo dall'altro - il libro rivendica
polemicamente una nozione di umanità oggi considerata residuale. E pone in
epigrafe un passo dei Taccuini di Max
Horkheimer, il quale afferma che la parola umanità è senz'altro un tipico slogan provinciale dell'europeo semicolto
e però confessa di non averne mai trovata una migliore. A chi oggi irride la
nozione di umanesimo quasi fosse un
rottame filisteo, Bellocchio oppone infine l'autorità di Flaubert che nel romanzo terminale, Bouvard e Pécuchet,
concede ai due cretini - due autentiche
vittime della cultura - «un'onestà, un
seme genuino e indistruttibile di umanità che mancano totalmente al mondo
in cui vivono, che giustamente diffida
di loro e se ne difende».
Non tutti sono a conoscenza del fatto che lo scrittore piacentino esordì da
Mondadori nel '66 con un volume di
racconti, I piacevoli servi, folgorante
titolo trovato da Fortini per un diagramma narrativo della media borghesia («la classe sociale che conosco meglio, anzi la sola classe che conosco»,
tiene a precisare l'autore) o insomma
della società che presto si sarebbe detta affluente: firmandone il risvolto di
copertina, Niccolò Gallo sottolineava
allora la capacità di cogliere il cinismo
e la volgare maccheronea di una classe
che oggi è divenuta universale; ma a chi
glielo ricorda Bellocchio risponde, sorridendo, con un silenzio eloquente. E
aggiunge: «Più che la narrativa, ho a
lungo prediletto i diari, i libri di testimonianza, i carteggi, i generi che si potrebbero definire di frontiera. Ma oramai leggo poco, mi annoio, e certe volte
dopo avere letto qualche pagina mi rifugio nella solita battuta e dico è così
brutto che non l'ho neanche letto. Mi
viene da pensare che alla mia età davvero si ha la sensazione di non poter più
né insegnare né imparare nulla».
E però, non appena detto questo,
Piergiorgio Bellocchio si concede un'altra frazione della sigaretta, che ha riaccesa più volte, e un ultimo lampo di
ironia: «Certo, ho letto un paio di libri
di Philip Roth, qualcosa di Malamud,
di Bellow. E mi pare che gli americani
siano molto più bravi dei nostri. Forse
perché, in modo cosciente o meno, gli
americani sentono una forma di responsabilità sovranazionale, mondiale, che da noi non c'è, non esiste. E infatti Montale diceva che non può esistere una grande letteratura bulgara».