Recensioni / Paolo Desogus, Laboratorio Pasolini. Teoria del segno e del cinema

In una nota del 1965, raccolta in Empirismo eretico, Pasolini muove da una riflessione posta a fondamento del linguaggio cinematografico, del cinema di poesia: «Ogni sforzo ricostruttore della memoria è […], in modo primordiale, una sequenza cinematografica» (Il «cinema di poesia», in Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. I, Milano, Mondadori, 2004, pp. 1461-1488, p. 1463). Infatti, aggiunge, «c’è tutto un mondo, nell’uomo che si esprime con prevalenza attraverso immagini significanti […]: si tratta del mondo della memoria e dei sogni» (ibid.). Senonché questi segni, questi elementi mnestici di cui si compongono le immagini mentali, hanno natura non strumentale, vengono alla superficie per un moto involontario, sono grafemi prodotti dall’inconscio. «Lo strumento linguistico su cui si impianta il cinema è dunque di tipo irrazionalistico: e questo spiega la profonda qualità onirica del cinema, e anche la sua assoluta e imprescindibile concretezza, diciamo, oggettuale» (p. 1464).
Nonostante queste premesse teoretiche, Il cinema di poesia è un testo militante, ben innestato nel confronto critico e letterario degli anni Sessanta. In altre parole, Pasolini ha in mente una precisa idea di cinema (in particolare la Nouvelle Vague), alcuni obiettivi polemici (di Godard, per fare un esempio, scrive che è un «Braque brutale, meccanico e disarmonico», p. 1482), una struttura formale ed espressiva per realizzarla. Il nucleo tecnico e linguistico del suo discorso insiste sulla «soggettiva libera indiretta», su cui è possibile instaurare una tradizione di «lingua tecnica della poesia» (p. 1477) nel cinema. Le pagine su Antonioni sono, in questo senso, illuminanti, perché Antonioni ha creato una soggettiva indiretta libera che coincide con l’intero film: una «liberazione formale» (p. 1478) che accende e irradia il suo stile poetico. La tecnica del cinema di poesia, la sua forma, è il discorso libero indiretto, il discorso rivissuto.
Nello studio che Paolo Desogus ha dedicato alla linguistica pasoliniana e in particolare all’immagine filmica viene valorizzato anche un altro intervento teorico, La lingua scritta della realtà (in Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. I, cit., pp. 1503-1540) che segue di un anno e precisa l’impostazione dell’articolo precedente. Nella Introduzione e nel primo capitolo Desogus ripercorre storicamente la riflessione linguistica di Pasolini per dettagliare il sistema di relazioni tra segno e referente in quella particolare forma di costruzione del segno rappresentata dall’immagine cinematografica.
Un caso particolarmente significativo viene mostrato e analizzato nel film La ricotta. In una scena gli attori compongono un tableau vivant – una deposizione – ispirato a una tela del Pontormo. «Dell’inquadratura», scrive Desogus, «colpisce in particolare la logica interna del dipinto, l’organizzazione spaziale dei personaggi e l’armonia verticale che assumono» (p. 47). Nei fotogrammi seguenti, però, con un guizzo parodico il lavoro dell’imitazione viene vanificato e messo in ridicolo dallo scioglimento del gruppo umano che aderiva all’immagine pittorica: «A un certo punto delle riprese il Cristo però cade dalle braccia di chi lo tiene per le gambe. La posa faticosamente costruita viene sciupata e tra gli attori scoppia una risata. Quei volti e quei corpi sino a quel momento costretti alla postura innaturale del Pontormo sono ora liberi di esprimersi» (p. 47). Al di là degli aspetti espressivi che rimandano al registro della corporeità nei suoi strati bassi e comico-caricaturali (le smorfie grottesche, le dentature irregolari), il passaggio ha valore metateorico, «le immagini rivelano come dietro la coscienza stilistica che opera nel reale e che cerca nel sottoproletariato la sua espressione più autentica, permanga la vita, insieme alla sua imprevedibilità, alla sua irrazionalità» (p. 48).
Se, dunque, il pittorico rappresenta per Pasolini «la porta di accesso al reale» (p. 45) e la sua forma simbolica, d’altro canto però il cinema si serve della realtà come materia linguistica, attingendo i suoi segni direttamente dal bacino inesauribile della natura. Su quest’ultima asserzione si sono concentrate le critiche dei semiologi – in particolare Umberto Eco – che ne hanno sottolineato la debolezza metodologica, accusando di referenzialismo l’intera riflessione semiologica del poeta delle Ceneri.
Il «pittorico», annota Desogus, indica «quel bagaglio di immagini, figure e linee cromatiche che hanno dato forma alla realtà senza divenire semplice abitudine percettiva o segno sclerotizzato» (p. 43). Il punto saliente è la sua «funzione mediatrice» (ibid.) tra i due estremi della langue (il codice, la cultura, l’istituzione), da un lato, e della sostanza vitale preesistente ai singoli atti espressivi (la parole), dall’altro.
Nel secondo capitolo del libro (Il cinema di poesia e la soggettiva libera indiretta, pp. 59-95) sono approfonditi gli aspetti espressivi e stilistici legati all’uso della soggettiva libera indiretta anche mediante l’analisi di alcune sequenze del film Teorema. La soggettiva libera indiretta «è considerata il corrispettivo cinematografico del discorso indiretto libero letterario» (p. 88), ma «rispetto al discorso libero non è fondata sulla parola, bensì sullo sguardo e su come l’orizzonte visivo del personaggio e quello della macchina da presa […] si incontrano e producono un particolare punto di vista sul loro oggetto di comune contemplazione» (pp. 88-89). In questa speciale regressione si attua un processo di vitale importanze per Pasolini: la soggettiva indiretta libera deve essere considerata «come la reinterpretazione in chiave stilistica della nozione gramsciana di connessione sentimentale, formulata per descrivere la congiunzione tra l’intellettuale, ovvero tra colui che sa, colui che è cosciente dei processi storici e sociali e che al loro interno è soggetto operante, e colui che invece vive la condizione di subalternità, vive cioè in maniera irriflessa la condizione di dominato ai margini della storia» (p. 130).
Il cinema di poesia veicola una lettura eterodossa del pensiero gramsciano fondata sulla «connessione sentimentale» tra intellettuali e popolo-nazione, sebbene il rapporto con Gramsci (cui è dedicato il terzo capitolo: Lo scandalo della coscienza: note sull’influenza di Gramsci, pp. 97-115) sia segnato da una netta ambivalenza, rilevata e tematizzata in molti luoghi delle Ceneri. Pasolini oppone a una visione della storia fondata sulla dialettica e la lotta di classe «la dimensione popolare dei subalterni colta nella sua spontaneità, nella sua vitalità impura e irriducibile» (p. 103). L’immersione istintiva e irrazionale nel mondo dei subalterni ha «un carattere di tipo estetico-letterario che non gli consente di accettare la trasformazione delle classi popolari in soggetto storico-politico» (p. 106). Inoltre, dall’opposizione alla storia e dalla prevalenza assegnata alle forze della natura, dell’eros e del bios, è derivata in tempi recenti una lettura tesa a istituire un parallelismo tra l’opera di Pasolini e quella di Foucault «con particolare attenzione agli studi sulla biopolitica» (p. 114). L’ultimo capitolo del libro è dedicato a Empirismo eretico, che raccoglie interventi e articoli scritti tra la metà degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta (L’empirismo eretico di Pasolini, pp. 143-168). Pasolini coltiva a lungo un progetto originale, «una raccolta molto diversa da Passione e ideologia, e questo a partire dalla scelta stilistica di affidare a un pastiche di modelli compositivi lo strumento espressivo e argomentativo per il suo nuovo volume» (p. 163). Il cinema e la semiologia della realtà è il filo che lega alcuni scritti e che potrebbe funzionare da titolo del volume, ma verso la fine del 1967 «la ricerca sul segno cinematografico si ferma» (p. 164) e dopo «tre anni di intensi dibattiti e feroci polemiche» (ibid.) il progetto assume una fisionomia più eterogenea e occasionale. Empirismo eretico appare come una mappa, «descrive territori diversi, ciascuno caratterizzato da una propria morfologia, entro i quali l’autore ha eretto le proprie costruzioni più o meno fragili e durature» (p. 167). Nelle sue stratificazioni, nella molteplicità dei raccordi al contesto storico-letterario e al macrotesto pasoliniano, il discorso coordina e «unisce la riflessione linguistica, lo studio letterario, l’intervento politico e la ricerca semiotica» (ibid.) e traccia in diacronia, con formula tratta da Gramsci, «il ritmo del pensiero in sviluppo» (p. 168).