Recensioni / Raffaello Palumbo Mosca, La realtà rappresentata. Antologia della critica sulla forma romanzo (2000-2016)

La particolare storia del romanzo in Italia, e la sua attualità come genere ancora capace di raccontare e interpretare il presente, sollevano questioni critiche di ampia portata. La sua evoluzione nel corso del tempo, così come la sua capacità di adattarsi e di fagocitare altre forme letterarie fino a produrre contenitori narrativi ibridi, dall’autofiction al romanzo saggio, dal personal essay al reportage narrativo – tutti generi, per inciso, che hanno avuto un «successo planetario» (p. 23) nel corso degli ultimi anni – pongono infatti un problema non solo relativo al suo statuto odierno, ma anche alla specifica modalità in cui esso si è profilato e declinato in Italia fin dalle origini. Riflettere sulla forma romanzo oggi – dove l’oggi va inteso in un’estensione cronologica dilatata, ovvero, e almeno, l’arco di tempo che ci separa dalla fine del Novecento – implica fare i conti con questa doppia rete di problematiche che interessano sia il piano diacronico che sincronico: come il romanzo è arrivato a noi, e cioè attraverso quali percorsi autoctoni rispetto ad altre tradizioni culturali, e cosa il romanzo rappresenta oggi, appunto, per noi.
Il volume curato da Raffaello Palumbo Mosca per la collana «Quodlibet Studio. Scienze della cultura» della casa editrice maceratese, dal paradigmatico titolo La realtà rappresentata. Antologia della critica sulla forma romanzo (2000-2016), si propone di fare il punto su questi snodi teorici con un’ampia selezione d’interventi critici apparsi nel corso dell’ultimo quindicennio, spaziando da testi dal taglio più militante (Berardinelli, Cortellessa, Cordelli, Onofri ecc.) ad altri d’impianto saggistico-accademico (Mazzoni, Moretti, Fusillo, Rosa ecc.). L’orizzonte di lavoro si delinea attorno ad alcune domande aperte, che non solo contrappongono punti di vista molto distanti tra loro, in alcuni casi antitetici – due per tutti, la fede incondizionata al romanzo di Vargas Llosa, che vede in esso l’unico genere capace ancora oggi di offrire una «conoscenza totalizzante e in presa diretta dell’essere umano» (p. 9), e lo scetticismo merceologico di Alfonso Berardinelli, per il quale il romanzo è ormai definitivamente ancorato alla sua deriva di prodotto inoffensivo e consolatorio – ma sollecitano l’osservazione del fenomeno da prospettive che lo inquadrano su un diverso scenario. È lo stesso Palumbo Mosca, nell’introduzione al volume, a mettere a fuoco almeno due questioni con cui si è costretti a fare i conti. La prima riguarda la natura borghese del romanzo moderno: un assunto storiografico che da Ian Watt in poi ha demarcato la storia del novel come genere intimamente legato all’humus sociale che si profilò nell’Inghilterra del XVIII secolo, dove interpretò i valori e la medietà di una classe in ascesa che stava vivendo la propria epopea politica ed economica. Ma è davvero così o «non si tratta, piuttosto, di un paradigma che assolutizza un dato sì reale ma geograficamente circoscritto»? (p. 11). Lo aveva già mostrato Mazzoni: in altre tradizioni culturali la saldatura tra romanzo e borghesia è molto meno solido, spaziando dal genere dell’introspezione che si sviluppò in Francia in riferimento alla «cerchia chiusa della corte» e alla tradizione «autoptica di origine agostiniana», a quello «impregnato di spiritualità» che nacque in seno alla cultura russa dell’Ottocento (ibid.).
Il romanzo in Italia, e qui si arriva alla seconda questione, giunto in ritardo e sullo sfondo di una paesaggio frammentato su molteplici piani (politico, linguistico, sociale ecc.), oltreché privo di una vera «borghesia colta», si è trovato fin da subito nella paradossale condizione di essere legittimato come genere moderno ed essere negato fin dal suo stesso fondatore, e cioè Manzoni, che – ricorda Palumbo Mosca sulla scorta di un lettore d’eccezione come Sciascia – lavorò «“per farne altra cosa dal romanzo” attraverso le analisi storiche ed economiche, attraverso gli inserti metanarrativi; e infine con l’aggiunta (fondamentale) della Storia della colonna infame» (p. 35). Una spinta all’ibridazione e alla delegittimazione che ha percorso tutta la storia di questa forma letteraria nel nostro paese, resa ancora più complessa dall’interferenza crociana, che – andrà pur detto – ha rappresentato un veto operante per un bel pezzo di Novecento, tanto da suscitare, a cavallo tra anni Venti e Trenta, all’alba cioè della nuova grande stagione del realismo, dibattiti e prese di posizione attorno a un genere percepito, l’espressione è di Debenedetti, come una «flora precaria» non in grado di attecchire (dal Borgese di Tempo di edificare alla querelle tra contenutisti e calligrafi). Eppure, ipotizza Palumbo Mosca, proprio in questo ritardo può essere ricercata la forza e l’originalità del romanzo italiano, «diviso tra obiezioni endogene e spinte e influssi esogeni, reso spurio dal proliferare di clausole metanarrative e saggistiche che evidenziano la frattura tra eroe e mondo, tra narrazione e riflessione, tra essere e dover-essere» (p. 37).
È un punto di vista interessante, che potrebbe ricalibrare il dibattito su un piano che non riguarda più tanto il valore, il senso, le possibilità del romanzo in Italia, il suo successo o insuccesso sullo sfondo di uno scenario globale, ma la sua specificità di genere. Per riprendere la similitudine di Debenedetti: una specie botanica che ha subito, in un diverso contesto, una mutazione inattesa.