Nell’ultimo decennio, alcuni studi (cominciati da Romano Luperini e proseguiti da studiosi come
Raffaele Donnarumma e Massimiliano Tortora) hanno contribuito a vario titolo ad importare nella
nostra cultura la categoria del modernismo, fino a qualche anno fa attribuita al solo mondo
anglosassone. In effetti, gli storici della nostra letteratura, più attenti alle avanguardie storiche che al
clima generale maturato nello scorcio di fine Ottocento-inizio Novecento, hanno spesso trascurato
le tracce che la temperie modernista ha lasciato nel nostro ecosistema letterario. Ben vengano
dunque studi che pongano nuova luce su quella precisa epoca, da un lato lavorando su alcuni luoghi
comuni al riguardo – si pensi al notevole Romanzo-saggio di Ercolino, macchina argomentativa che
affronta il modernismo meno positivista e per questo più nascosto -, dall’altro sistematizzando in
modo esemplare le varie figure, correnti e manifestazioni di quella complessa stagione. In
quest’ultimo indirizzo si colloca il magistrale La nascita del modernismo italiano di Mimmo
Cangiano, libro che incute timore per mole e densità, ma che proprio in virtù di queste
caratteristiche apre squarci e nuove prospettive sul tema.
Già nell’introduzione Cangiano pone i paletti del suo discorso, che travalica immediatamente i
confini della letteratura rendendo il libro un vero e proprio tour de force nella storia culturale del
primo ventennio del XX secolo. In questo senso, l’analisi dell’evoluzione della cultura diventa
anche analisi politica: la cultura, per Cangiano, ha per forza implicazioni politiche, si traduce in
azione politica e fa da supporto alle ideologie di un dato momento storico: nell’epoca osservata,
l’ideologia imperante è quella borghese del capitalismo maturo, che ha ormai preso il potere sociale
e politico e, di conseguenza, tiene le redini del gioco culturale. Così, il modernismo tratteggiato da
Cangiano diventa davvero la «logica culturale» di una classe, quella borghese, appena diventata
dominante e subito costretta a fare i conti con le conseguenze della propria rivoluzione: da un lato,
la «morte di Dio» e il crollo dei sistemi epistemologici che avevano sorretto le epoche precedenti;
dall’altro, la necessità di riconfigurare il proprio ruolo nella storia, puntando a conservare il potere e
al tempo stesso a non tradire l’idea di progressività storico-sociale che aveva portato al trionfo
sull’aristocrazia. In questo senso, il modernismo diviene lo strumento culturale per preservare
l’orizzonte ideologico capitalistico-borghese, ma si costituisce anche come il terreno da cui
fioriranno le «filosofie della crisi» degli anni Venti e Trenta. Verrebbe da dire che l’operazione
condotta dall’autore recupera gli stessi strumenti con cui Jameson aveva analizzato il
postmodernismo; ma il libro di Cangiano si distingue per una più spiccata vocazione enciclopedica
– oltre che per l’attenzione particolare riservata a una cultura nazionale, quella italiana.
La trattazione procede per coppie. La prima di queste, Papini e Prezzolini, fornisce a Cangiano lo
spunto per rivedere la componente mistica, quasi superomistica del modernismo: il nuovo
paradigma mentale, comportando la dispersione della conoscenza, impone ai due intellettuali di
ritagliarsi un nuovo ruolo nella società, non più legato all’astrattezza concettuale ma ancorato
saldamente al «fare». L’atomizzazione gnoseologica che caratterizza il modernismo, però, lo rende
particolarmente sensibile a ideologie altamente formalizzanti quali il nazionalismo: attraverso
questa via si creerà lo spazio per il fascismo. È questa la posizione che Cangiano evidenzia in
Soffici, ed è forse una delle notazioni più rilevanti del lavoro: utilizzare la categoria del
modernismo per scovare le radici del fascismo italiano è non solo un’operazione particolarmente
intelligente, ma anche apprezzabile per il coraggio che ha richiesto. Si tratta, cioè, di un tentativo di riportare i discorsi culturali in dialogo coi discorsi politici; in questo senso, appare chiara la
genealogia critica in cui Cangiano si inserisce e che partendo da Lukács arriva a Franco Moretti;
una tradizione che mescola marxismo e critica letteraria e crede fortemente nello stretto rapporto tra
cultura e politica. In questo senso, però, va chiarito che il lavoro di Cangiano non si iscrive
propriamente nell’ambito della critica letteraria: il suo discorso poggia principalmente su fonti come
articoli e saggi. In altre parole, la dimensione della produzione artistica rimane sullo sfondo, non
entra mai in gioco come una delle componenti. Questo è forse uno dei limiti di questo libro.
Sempre sulla linea di interpretazione politico-culturale in chiave conservatrice del modernismo si
pongono le analisi delle posizioni di Boine e Jahier, esponenti del cosiddetto modernismo religioso
italiano, che recuperano la lettura teologica della realtà in chiave reazionaria, e soprattutto di
Michelstaedter, eletto a simbolo delle contraddizioni irrisolte del modernismo. In particolare,
colpisce la volontà di contrastare l’atomizzazione sociale attraverso il superomismo:
«Michelstaedter comincia a comprendere il peso giocato dalla stessa organizzazione sociale nella
costruzione delle istanze individualistiche (anche di quelle che si pongono in opposizione alle sue
leggi)» (p. 515). Il tentativo di riunire le istanze borghesi, di fondo, fallisce, «il pensiero borghese
rifiuta sé stesso» (p. 593); il modernismo, per Cangiano, diventa un momento di crisi profonda della
cultura borghese, entro la quale si realizza e nella quale si spegne.
Il libro richiede interpretazioni complesse e variegate, presta il fianco a discorsi molto distanti fra
loro; il tentativo di rintracciare un sistema culturale frammentato in esperienze personali molto
diverse fra loro è però riuscito, perché grazie alla pluralità delle posizioni affrontate Cangiano evita
di cadere nella ricerca fine a sé stessa di un’ideologia sterilmente definita: il modernismo di
Cangiano non è certo programmatico e coerente, ma anzi accidentato; non casuale, ma costellato da
relativismi che gli impediscono di assumere un aspetto facilmente sistematizzabile. Ma è proprio la
relatività delle figure scelte da Cangiano ad aprire possibili nuovi spunti: su tutti, sembra
interessante in particolare come la necessità di riformulare la cultura borghese presentandola come
insuperabile, avvertita dal modernismo, sia un tema comune – anche se affrontato in modo diverso
– anche al postmodernismo, che, stando al lavoro di Cangiano, si differenzia da questo sistema
culturale per la crisi più netta del ruolo dell’intellettuale. In questo senso, diventa importante
sottolineare come Cangiano operi in un contesto non ancora caratterizzato dalla società di massa
matura che si realizzerà nella seconda metà del XX secolo; le esperienze intellettuali che ripropone
rimangono ancora all’interno delle élite più avanzate della società. Infine, interessante sarebbe
proseguire il discorso e analizzare il rapporto tra l’ultima generazione di intellettuali-umanisti,
quella che visse la Seconda guerra mondiale, e i loro padri modernisti, da loro mai rinnegati anche
se – come si evince dal discorso di Cangiano – complici se non fautori del fascismo che
combatterono.
La nascita del modernismo italiano è un libro ben riuscito, che al netto di alcune considerazioni
metodologiche (quali l’assenza di riferimenti letterari) può vantare diversi meriti: pone nuovamente
l’accento sul rapporto tra politica e cultura, trascurato negli ultimi decenni in seguito alla crisi della
critica letteraria, riesaminandolo fecondamente; dà una prima efficace sistemazione a un periodo
culturale come il modernismo, individuato molto di recente; offre spunti di lavoro interessanti anche
su epoche diverse e successive a quella che prende in esame. Cangiano ha scritto un libro di cui in
futuro si dovrà sicuramente tener conto, se si vorrà delineare una storia letteraria del Novecento più
precisa e funzionale; molto interessante sarà mettere in relazione la posizione di Cangiano, piuttosto
critica nei confronti del modernismo, con le idee di altri studiosi.