Recensioni / Yona Friedman, l’architetto dell’utopia che voleva farsi realtà nella vita

Con Yona Friedman (Budapest, 1923 – Parigi, 2020) scompare l’ultimo degli utopisti, ma concretissimi, contemporanei, come lo furono Paolo Soleri, Kisho Kurokawa, e Cedric Price. Ebreo sopravvissuto fuggendo dai nazisti rifugiandosi ad Haifa, nel 1957 si trasferì a Parigi, la città che ha eletto a centro delle sue molte attività culturali. Perché Friedman non è stato solo un architetto nel suo significato tradizionale di progettista, ma un infaticabile animatore culturale.
Già con il suo Manifeste de l’architecture mobile al C.I.A.M. di Dubrovinik (1956) è stato l’antesignano di un’architettura che superava il funzionalismo dell’alloggio, eredità del Razionalismo degli anni Venti e Trenta, indicando lo sviluppo di una ricerca orientata alla flessibilità, sostenibilità, interrelazione dell’abitare. Un’indagine, la sua, partecipe del clima di profonda revisione critica dell’eredità del Movimento Moderno che correva parallela con quella dei giovani del Team10.
L’architettura di Friedman si nutrì di temi che restano attualissimi, basti pensare a quello della partecipazione che produsse non solo opere (Lycée Bergson ad Angers, 1978-1981), ma segnò la diffusa necessità di considerare sempre nello sviluppo di qualsiasi programma d’architettura il ruolo centrale rivestito dall’utente con i suoi bisogni e le sue aspirazioni. Da qui la sua vicinanza a molte delle tesi di Giancarlo De Carlo che tra gli architetti italiani fu il più interessato alla sua ricerca tanto da invitarlo ai propri corsi dell’Ilaud.
L’aspetto progettuale per Friedman non riguardava la singolarità del linguaggio, essendo più interessato alle relazioni dell’architettura con la società e la politica. In questa direzione, oltre l’insegnamento, in particolare presso diverse università statunitensi, lavorò a lungo per le Nazioni Unite e l’Unesco nei paesi emergenti dell’Africa e dell’Asia al fine di individuare soluzione pratiche di autocostruzione. In India, a Madras, seguendo i suoi principi-guida, nel 1987 fu realizzato, impiegando materiali locali (bambù), il Museum of Simple Technology.
Anche se la sua idea di una «città spaziale», cioè uno spazio articolato sopra un agglomerato esistente per risolvere i problemi del consumo di suolo, non si è ancora realizzata, in una delle sue ultime interviste (rilasciata a Manuel Orazi) si dichiarava soddisfatto che se le sue tesi, imitate da molto tempo, continuassero ad esserlo. «Sono parte di un processo in atto e sono contento di esserne parte». Oggi non resta che continuare a sostenerle perché così ricche ancora di verità e democrazia.