Recensioni / Tetti e ripari: l’idea di architettura di Yona Friedman

Ho scritto questo articolo dopo aver visto alla galleria Francesca Minini di Milano la mostra dedicata a Yona Friedman, pochi giorni prima della sua morte avvenuta il 20 febbraio 2020. Da un articolo di introduzione preliminare al suo pensiero, questo pezzo si è trasformato in uno scritto in sua memoria, in memoria della sua grandezza.
Nato a Budapest nel 1923 e naturalizzato francese, è un architetto che affronta in modo sistematico il problema della progettazione con un’attenzione alla dimensione democratica del costruire, mettendo al primo posto il singolo cittadino invece che la città intesa come organismo superiore. Nel 1957 pubblica il pamphlet Manifesto de l’Architecture Mobile, in cui prende forma la sua teoria dello spazio abitato come un luogo che non deve comunicare fissità ma essere del tutto modificabile in base al gusto e alle necessità di chi la vive, cambiando quindi con il tempo. L’architetto deve avere la funzione di guidare il singolo a organizzare il proprio spazio abitativo, una sorta di consulente che abbia la capacità di cogliere e ascoltare le volontà di chi ha di fronte.
La sua idea di architettura prevede la fluidità delle forme, in modo che niente sia determinato e fissato una volta per tutte. Oltre che nell’ambiente interno delle case – in cui quindi l’abitante dovrebbe poter modificare facilmente la disposizione degli spazi attraverso, per esempio, pareti mobili legate tra loro da cerniere – questo discorso vale anche per tutta la città.
La sua Ville Spatiale è uno spazio cittadino in cui le persone vivono e lavorano in alloggi di loro progettazione, spesso favorendo uno sviluppo verticale e spazi sopraelevati per consentire la crescita delle città limitando l’uso della terra e in base a un approccio metodico. Nascono spazi penetrabili e facilmente modificabili, alla base di realtà architettoniche fluttuanti, leggere, che vogliono essere fruibili da tutti e variabili in base al mutare del pensiero della popolazione.
Questo lo si vede per esempio nel progetto presentato al concorso per la costruzione del Centre Pompidou. Friedman pensa a una infrastruttura come scheletro architettonico in cui inserire i vari elementi vivibili dal pubblico e tutti gli impianti del museo. Gli spazi abitabili – fissati su questa struttura – avrebbero muri, soffitti e pavimenti modificabili nel tempo in modo da ottenere uno spazio pubblico sempre aggiornabile in base alle necessità espositive o estetiche del momento. L’idea è un edificio che cambi con lo stesso ritmo con cui viene usato e che sia parte attiva di tutti i fruitori: la condivisione costruisce relazioni.
Questo significa proporre un metodo di progettazione che non si basa solo sulla capacità tecnica, ma procede per tentativi ed errori, si avvale del gioco dell’improvvisazione e subisce il fascino della coincidenza. Friedman pensa all’architettura come a qualcosa che abbraccia l’accidentalità del processo, la collettività del coinvolgimento e il rispetto della terra su cui sorge: in questo modo l’architetto dovrebbe individuare delle comunità di piccola scala con cui collaborare per promuovere progetti di autopianificazione di villaggi urbani, senza sacrificare i bisogni e le richieste di ogni piccolo gruppo di persone a favore della megalopoli. Il primo obiettivo di una scuola d’architettura è quello di fornire informazioni sufficienti sulla società, sul contesto politico, sulle dimensioni e organizzazioni della vita dei luoghi in cui si interviene.
Questa visione olistica dell’architettura si affianca alla dimensione popolare dei progetti. Negli ultimi vent’anni Friedman ha focalizzato la sua produzione sulle abitazioni a basso costo: per lui il design è oggi una dimensione elitaria della progettualità, ma la sua vera essenza sarebbe invece quella di essere popolare e realizzabile da tutti per proprio conto. Il designer sarebbe allora il pensatore in grado di sviluppare idee e tradurle in istruzioni per costruire in base a tecniche semplici e con un prezzo molto basso, a favore della comunità (ciò lo avvicina al pensiero di Enzo Mari).
Il carattere anarchico e libero delle idee di Friedman crea un contrasto con ciò che l’architettura ha rappresentato negli ultimi decenni. Le sue idee sono infatti rimaste pressoché tutte a uno stadio preliminare rispetto alla realizzazione vera e propria, forse proprio perché la loro radicalità anche morale non poteva trovare compromessi con le richieste e gli obiettivi dei piani urbanistici dello sviluppo architettonico della seconda metà del Novecento.
Il lavoro principale di Friedman è stato quello di proporre idee sempre all’avanguardia, progetti magari irrealizzabili dal punto di vista ingegneristico ma capaci di produrre uno scarto in chi li legge e magari di portare un’attenzione politica e sociale nei confronti dell’architettura.

Tra i progetti portati a termine, è fondamentale il Museum of Simple Technology, costruito in India (Madras, oggi Chennai) da maestranze locali sotto la supervisione di Yona Friedman. Il museo, costruito con canne di bambù e fogli di alluminio, è nato in un processo di ascolto degli abitanti locali, di accidentalità e scambio continuo, di revisione dei manuali di partenza. In particolare il libro Tetti nasceva proprio per sviluppare idee costruttive di tetti e ripari per i Paesi del Terzo mondo, affiancando al testo dei disegni molto semplici in modo da comunicare anche con persone illetterate: questo portò Indira Gandhi a stampare Tetti in numerose copie e a distribuirle per facilitare anche i più poveri a realizzare ripari in modo autonomo. “La semplicità è importante. La semplicità è la cosa più complicata”.
Friedman ha sviluppato, quindi, un proprio linguaggio anche visivo, fatto di disegni, piccoli progetti, lavori radicali e incisivi come La Manifestation des Licornes, in cui figure stilizzate di liocorni creati con pagine di giornale in gruppo riflettono sui principi costruttivi delle città e delle abitazioni. Ma ha anche creato un vero e proprio vocabolario fatto di segni e figure stilizzate che possano comunicare al di là delle differenze linguistiche raggruppando significati universali.
“Sono una persona visiva: un’immagine spiega, per me, molte cose”: per questo Friedman è stato riscoperto anche nel mondo dell’arte, per la predominanza di disegni e progetti che dall’architettura si affacciavano molto facilmente al disegno e alla scultura, ma anche all’installazione, come quando crea vetrate colorate riciclando sacchetti di plastica blu, verdi, gialli, rossi trovati a Parigi. L’attenzione del mondo dell’arte nei suoi confronti forse è determinata anche dalla possibilità che l’ambiente artistico – meno codificato, più vulnerabile e fluido di quello dell’architettura o dell’editoria – ha di poter rappresentare in modo completo i suoi progetti, valorizzando anche quella dimensione visiva come occasione per parlare ad un pubblico sempre più ampio e non condannando la dimensione quasi esclusivamente ideologica, teorica e utopistica dei suoi progetti.
All’interno di questa prospettiva si inseriscono le due mostre dedicate a Yona Friedman ora in corso alle gallerie Massimo Minini di Brescia e Francesca Minini di Milano, a cui si deve anche la pubblicazione del primo catalogo Untitled (ed. Koenig), che rilegge da un punto di vista visivo l’opera di Yona Friedman, con disegni, collage, alfabeti, modellini, cartoline e molto altro. Al suo interno, i testi di Hans Ulrich Obrist, Maurizio Bortolotti e Hou Hanru.