Recensioni / L'architettura «mobile» di Yona Friedman

Yona Friedman, scomparso l'altra sera a 96 anni, ma attivo sino a un paio di settimane fa, è stato una di quelle figure di architetto e teorico poliedriche e anche un po' profetiche, cioè in grado di leggere con rapidità i cambiamenti dei tempi. Ebreo ungherese (Budapest, 5 giugno 1923) ha vissuto in Europa, Israele e in America, veniva spesso in Italia soggiornando a Milano. Per tanti anni è stato amico dell'architetto Giancarlo De Carlo (padre dello scrittore).
Cresciuto in Ungheria, lì diventa oppositore al nazismo. Arrestato nel 1944 per motivi politici e non come ebreo (per questo non deportato) emigra in Palestina nel '46 in un kibbutz. Nel '48 si iscrive al Politecnico di Haifa e nello stesso anno partecipa alla Guerra di indipendenza ebraica e così si laurea solo nel '49. Ma poi emigra, con forte spirito critico, anche da Israele e dal '57 risiede stabilmente a Parigi, dove le sue riflessioni incontrano il successo. Nel 1956, al X Congresso Internazionale di Architettura moderna di Dubrovnik, il suo Manifeste de l'architecture mobile incomincia a parlare di «mobilità dell'abitare» e con l'esempio della «Ville spatiale», Friedman espone i principi di un'architettura capace di comprendere le continue trasformazioni della «mobilità sociale», una architettura scientifica (titolo di un suo libro del 1971). Un'architettura basata sulle megastrutture, delle quali diventa il riconosciuto riferimento. Muove da Le Corbusier, ma il suo Manifeste de l'architecture mobile — che incomincia a circolare «off», in ciclostile, nelle università e nei centri di dibattito sull'architettura parigini — è un'idea che infiamma. Molti si mettono a fare megastrutture. Solo dopo si incomincerà a parlare di città-territorio e solo dopo arriveranno gli Archigram. A Torino, nel '69, in un convegno su architettura e rivoluzione, presente Aldo Rossi, Friedman sostiene che la società è un'astrazione e che esistono solo individui (tesi anche di Margaret Thatcher): subisce un clima di sopraffazione. Ma lui, né marxista né, ovviamente, cattolico, riteneva che i diritti individuali prevalessero su quelli collettivi. Lo si vede quando lascia l'Europa per lavorare in America con Negroponte. I due mettono a punto un programma di progettazione architettonica, il software «The Yona System», per la composizione architettonica partecipativa. Il suo gruppo di autoprogettazione si chiama The Architectural Machine group. Poi cambia ancora e si mette a lavorare con l'Unesco utilizzando tecniche e materiali semplici. Il mondo dell'arte lo presenta un po' appiattito come disegnatore, ma ha scritto due libri di fisica teorica, L'ordine complicato e L'universo erratico.
Il principale studioso italiano di Yona Friedman è Manuel Orazi, con cui scrive The Dilution of Architetture nel 2015. Per Quodlibet Orazi ha pubblicato di Friedman Utopie realizzabili, L'Ordine complicato e Hai un cane? E lui che ti ha scelto che, racconta Orazi, «è un invito a non accettare gli schemi». Quindi pubblica Tetti (a cura di Andrea Bocco), «un richiamo alla sostenibilità prima di tutti», come mostra il suo Museo della tecnologia semplice a Madras. Attualmente sono in corso su di lui due mostre curate da Massimo e Francesca Minini a Brescia e a Milano. L'annuncio della morte è giunto dall'account Instagram dell'architetto per conto del Fonds de Dotation Denise and Yona Friedman.