Recensioni / L’impossibile scarto del reale

Se il progresso della scienza procede tramite mutamenti di paradigma (Khun, La struttura delle rivoluzioni scientifiche), quello della filosofia si manifesta in molteplici turning point (svolte): dalla rivoluzione copernicana kantiana (oramai da più parti assodato essere stata una controrivoluzione geocentrica: l’uomo, il soggetto, al centro del cosmo epistemologico), a quelle logico-filosofiche di fine ‘800 primi ‘900 (Frege, Russell, Moore) e del Wiener Kreis (Cirolo di Vienna), proseguendo con la cosiddetta “svolta linguistica” che ha impegnato i filosofi ‘analitici’ (di area prevalentemente anglo-americana benché sia riduttivo e profondamente errato limitarne la definizione ad un confinamento geo-culturale) per giungere infine, almeno per il momento, con quel movimento tutto italiano che si stava formando già dalla metà degli anni ’90 del secolo scorso e che ha trovato risonanza e fondamento nel 2012 con la sua messa in manifesto ad opera di Ferraris: il Nuovo Realismo.
Nel suo lungo e travagliato tragitto, la filosofia era tornata, nuovamente, al punto di partenza, a quell’elemento elementare, talmente elementare da essere dimenticato perché troppo elementare, poco interessante e foriere di inganni: il reale. Ritornare al reale, accresciuti dal lungo détour negativo nell’irreale teorico (il post-moderno), permette, con un movimento tipicamente hegeliano, di cogliere il reale stesso con un elevato livello di sofisticazione, con una ingenuità consapevole e una naïveté per nulla improvvisata:

[p]er come lo intendo, l’appello all’ingenuità non è un modo per semplificare, ma per sofisticare, in nostro rapporto con il reale. È qui che si disegna la dialettica che dall’inemendabilità conduce all’affermatività (Ferraris, Realismo positivo, p. 42).

Ritornare al reale come forma di sofisticazione (termine non felicissimo e un po’ ambiguo), però, negherebbe al reale la sua effettiva realtà elementare: non sarebbe più l’ingenuo reale, ma un reale già colorato, già tinto e sfumato. Insomma, un reale sofisticato sarebbe, a conti fatti, poco realistico.
Se si vuole essere realisti, e se lo si vuole essere fino in fondo, il reale va affrontato per quello che è, ovvero quell’elementarità semplicissima eppure irriducibile. A tracciarne una mappa, quasi un guida (non turistica), si è profuso l’impegno di Felice Cimatti, filosofo, e Alex Pagliardini, psicoanalista, in Abbecediario del reale (insieme a tutti coloro che hanno partecipato alla stesura della miscellanea).
Difatti, il reale è la cosa più lineare possibile, ciò che fa meno problemi in assoluto. Ma a complicare la faccenda è proprio il suo essere semplice, assolutamente semplice. Perché se l’assolutamente è cagionato dall’essere sciolto dalla catena relazionale (slegato cioè dal gioco dei continui rinvii e dalla contestualità all’interno della quale va ad operare) superando il correlazionismo che vede l’azione simbiotica di soggetto e oggetto (Cimatti,Cose), allora la semplicità si trova tutta sbilanciata dalla parte non soggettiva, o meglio, si trova tutta sbilanciata in direzione di ciò che non può essere strutturato dagli schemi concettuali del soggetto (che poi in fondo è la teoria ferrarisiana del Nuovo realismo: non bisogna far collassare l’epistemologia sull’ontologia). Al contempo, però, una semplicità così avulsa non permette una coerente manipolazione della sua materia, ritiratasi in una trascendenza inavvicinabile e valorialmente superiore: insomma, il semplice sarebbe troppo complesso e complicato, quasi una protesi deistica di difficile metabolizzabilità.

Il reale è semplice, ed è proprio a causa di questa sua intrinseca semplicità che è così difficile – si è soliti dire impossibile – definirlo, trattarlo, intenderlo, nominarlo, viverlo, frequentarlo (Abbecedario del reale, p. 7). Ecco il nodo cruciale.

Il reale è impossibile. Se si vuole essere realisti si deve fronteggiare questa semplicità nonsofisticandola (sofisticamente), né rileggendone la complessità assoluta rendendola semplicemente facile e possibile, e rinegoziandone, fallimentarmente (fallimento macchinico, a camme bloccate: Versagen), l’impossibilità di fondo. Il Nuovo realismo è la possibilità: il reale è impossibile. Impossibile perché sempre filtrato dal linguaggio che lo taglia sul vivo, linguaggio come parola proferita e parola proferente, che si proferisce nel taglio che proferisce il reale, il quale si smarca rendendo inadeguata la parola, mancante il bersaglio:

la semplicità del reale pur essendo di tutt’altra “natura” dal linguaggio, pur non avendo niente a che fare con il linguaggio, non è che in questo e non è che in questo come ciò che è fuori da questo, come rovescio del linguaggio (ibidem).

Che fare allora? Cosa fa il taglio? Che cosa si può fare per fare il taglio? «[F]are delle singole lettere […] delle vere e proprie lettere, cioè dei marchi del reale, delle cose» (ivi, p. 8). Progetto destinato a fallire, perché le lettere, come incisioni rupestri, scavano nella viva pietra e si sedimentano: sono linguaggio reale che si struttura come altro alfabeto (e l’alfabeto è l’inscrizione della possibilità di ricombinazione nell’impossibilità del reale:Scheitern, fallimento aprente l’impossibile impossibile del reale nell’inscrizione della possibilità alfabetica). Resta solo il resto a certificarne l’impossibilità, per altro impossibile.
Cosa resta allora? Il resto infatti non è la possibilità rimanente, l’opportunità (affordance) che si palesa, nascosta, in quello che è dato; non è ciò che manca all’appello, il completamento della lista, la sfilza delle cose da fare rimosse per non capitolare. Il restonon è nemmeno la mancanza saturizzata, la ricucitura del buco: il «[q]uanto, nel redigere questo elenco, non mi è venuto in mente» di Gianfranco Baruchello, artista noto, tra l’altro per i suoi Leftovers (ivi, p. 141), non è l’apertura ai possibili futuri, rigorosamente contingenti, quanto il lato umbratile dell’affermazione nella negazione, della presenza nella mancanza, di ciò che, a ben guardare, fa trauma: il «Da-non-leggere» di Jacques-Alain Miller come preprologo al prologo di Altri scritti di Lacan. È la confutazione endogena dell’elenco (ἔλεγχος (elenchos)) all’interno del quale il resto mancante è già inscritto nella mancanza: che viene a mancare rendendo presente un qualcosa, l’object petit a, che rimane come resto-già-presente, ratio contra l’elencazione dell’elenco.
L’elenco, allora, è l’omeostasi del principio del piacere che chiede di essere scaricato nell’aggiunta di un ulteriore elemento, di un resto che resta da essere inchiodato all’elenco (che borgesianamente non può che elencare se stesso); ma tale omeostasi (pulsione → scarica) si scarica della sua carica-di-scarica allorquando si raggiunge l’al di là del principio del piacere e si rimuove l’angoscia come rimozione della castrazione (operata dalla castrazione; per queste riflessioni si rinvia a Pagliardini, Il sintomo di Lacan).

E resta quel resto impossibile, quello scarto che non-si-smarca-da e che è un aliquidtanto bello quanto mostruoso: il reale impossibile.