«Anche nei saggi di questo ultimo libro, che per fortuna ci è arrivato, emerge, oltre al bel modello di scrittura, la capacità di sintesi di Bellocchio. In poco ti dà
un'idea non solo del libro che ha
letto, ma anche di ciò che questo
libro può dire sugli uomini di allora e su quel che siamo noi». L'osservazione di Angela Borghesi,
docente di Letteratura italiana
contemporanea all'università di
Milano Bicocca, a proposito del
volume Un seme di umanità
(Quodlibet), che ha riportato in libreria una selezione di scritti introvabili di Piergiorgio Bellocchio,
si collega direttamente a come il
saggista piacentino partecipò
all'infuocato dibattito politico e
culturale sul romanzo La Storia
di Elsa Morante, cui la docente
milanese ha dedicato le mille pagine de L'anno della Storia 1974-
1975 (Quolibet), completato da
un'ampia antologia della critica,
comprendente testi di Cesare Cases, Carlo Bo, Giuseppe Galasso,
Goffredo Fofi, Geno Pampaloni,
Alberto Moravia, Mario Soldati,
Giovanni Raboni, Pier Paolo Pasolini.
Come mai un volume così corposo
sulla ricezione che La Storia di Elsa Mora nte ha avuto nel nostro
Paese? Si è trattato effettivamente di un caso unico?
«Una polemica così feroce e così
lunga non si era mai vista. Il romanzo esce a fine giugno del 1974,
la polemica va avanti fmo ai primi
mesi del 1975, con picchi altissimi: “il manifesto”, che non era certo il foglio da recensioni, per due
settimane tutti i giorni ospita un
intervento o degli intellettuali di
punta o dei lettori dedicato a questo romanzo, ma tutti i giornali ne
parlano. Viene recensito capillarmente, dalla rivista del Touring
Club al foglio nazionale dei Parrucchieri italiani, per citare due
esempi. Arriva ovunque la notizia
della Storia: Soprattutto a far
scalpore è la polemica ideologica
e politica. Ce ne erano già state altre: sul Metello di Vasco Pratolini, sullo Zivago di Boris Pasternak, sul Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, tre romanzi che affrontano nodi cruciali come il libro di Elsa Morante, ossia il rapporto dell'individuo con
la storia. C'è anche un ulteriore
aspetto. Questa polemica, anche
per le ragioni di cui si è detto, ci
mette di fronte un ritratto degli intellettuali, in particolare degli intellettuali di sinistra dell'Italia di
metà anni Settanta. Ed è un ritratto piuttosto sconfortante».
Che contributo è arrivato al dibattito da Piergiorgio Bellocchio, che
dirigeva all'epoca «Quaderni piacentini»?
«"Quaderni piacentini" entra in
questa polemica come al suo solito - ed è un indubbio pregio - non
in primo piano. Bellocchio non recensisce il romanzo, non si espone su questo grande palcoscenico della critica letteraria o del dibattito ideologico-politico. Di
Piergiorgio ho scovato - ma solo
perché mi sono impegnata in
questo lavoraccio durato cinque
anni - una dichiarazione in un'intervista molto rapida in una serie
di interviste volanti di Adolfo
Chiesa per il quotidiano "Paese
sera"».
Cosa emerge?
«In questa dichiarazione di poche
righe c'è tutto Bellocchio, che è
davvero fenomenale. Si dice
preoccupato per lo schematismo
cieco e paralizzante che viene fuori dalle dichiarazioni dei compagni della sinistra. Ovviamente si
riferisce al "manifesto", ma non solo. È preoccupato per l'incapacità e la non volontà di prendere seriamente in esame un libro come
La Storia e qui coglie in pieno la
questione. In tutta questa baraonda in realtà nessuno si mette a leggere con attenzione, con l'attenzione che Piergiorgio Bellocchio
ci mostra giusto nell'ultimo libro,
Un seme di verità; in cui affronta i grandi classici».
Quali le conseguenze?
«Bellocchio afferma: Nessuno ha
preso seriamente in esame La
Storia e questo è il sintomo di
quanto certa strumentazione
marxista sia ormai consumata,
usurata. Rossanda aveva scritto
sul "manifesto" un lungo pezzo di
condanna della Storia; perché riteneva questo romanzo un piagnisteo, e finiva scrivendo che
Morante avrebbe fatto meglio a
vendere patate piuttosto che disperazione. Bellocchio dice - ed è
il solito tocco ironico e spiazzante, tipico suo, con un caratteristico rovesciamento - che la colpa
dei marxisti è di non disperare abbastanza del loro marxismo. Dopo tutto è ancora meglio vendere
disperazione autentica piuttosto
che continuare a spacciare per autentico un marxismo che fa acqua
da tutte le parti. Ecco, credo che
in questa concisa battuta ci sia tutto Bellocchio, ma anche la giusta
lettura di quella polemica che occupa per mesi gli intellettuali della sinistra italiana senza mai affrontare un romanzo come La
Storia».
Dunque, da una parte un'estrema
concisione e dall'altra un profluvio di parole.
«La Storia può non essere un capolavoro - non stiamo discutendo adesso di qualità letteraria -
ma, proprio per i temi che metteva sul tavolo, quel romanzo meritava di essere letto con attenzione
senza pregiudizi ideologici. Bellocchio lo fa, ma bisogna andare
a scovare questa intervista. Quindi, da un lato c'è il Bellocchio che
si tira fuori da questa ribalta,
dall'altro riesce con una battuta
fulminante a crocifiggere alle loro responsabilità quegli intellettuali che in sostanza non fanno
che chiacchierare. Amo molto
Bellocchio per la sua capacità di
sintesi fulminea. In questa dichiarazione c'è proprio la sua figura di
intellettuale autonomo, equanime nel giudizio, discreto, coerente, onesto, che non coltiva illusioni e in poche battute, in poche righe ti inchioda alle tue responsabilità».