Recensioni / Piergiorgio Bellocchio ripercorre la sua vita di critico «Continuo a sentirmi più lettore che scrittore»

Quando la critica si colloca a pieno diritto nella categoria «piacere». Ecco il primo pensiero che ispira nel lettore il nuovo libro di Piergiorgio Bellocchio, Un seme di umanità, pubblicato da Quodlibet. Straordinaria raccolta di saggi letterari che non sono solo letterari, perché Bellocchio non è solo un critico, ma uno di quegli intellettuali d'altri tempi che cercano nella letteratura domande e risposte sulla vita degli individui in relazione alla società. Si potrebbe parlare di critica sociologica, ma non sarebbe esatto: è una lettura dei contenuti, delle strutture, dei personaggi in chiave politica, considerando però che nessuno è più apolitico o meno ideologico di Bellocchio. È anche, forse soprattutto, una riflessione sulle dinamiche morali che legano l'autore alla sua opera, dunque si potrebbe chiamare critica morale se la definizione non rischiasse di farla precipitare nel solito calderone del «politicamente corretto»: tant'è vero che uno dei valori che Bellocchio ricono sce nei testi è la «schiettezza», quasi in contrapposizione con la letteratura come menzogna di Giorgio Manganelli (che pure come critico apprezza: meno come scrittore neosperimentale). Libertà e coerenza sono i tratti che distinguono l'amico, molto ammirato, Danilo Montaldi. Isherwood gli interessa per «l'angustia consapevole» che «non gli permette mai di ignorare completamente "gli altri"». Il soldato Svejk di Hasek è un eroe comico con una «ferrea coscienza di classe». Dostoevskij e Tolstoj non dimenticano mai le «responsabilità sociali» dell'essere scrittori. Stendhal ha un principio irrevocabile: «l'energia si trova solo nella classe che lotta per i veri bisogni». I due cretini Bouvard e Pécuchet, «apostoli fallmentari del progresso», conservano «infine un'onestà, un seme genuino e indistruttibile di umanità, che mancano totalmente al mondo in cui vivono». Persino il Céline fascista e antisemita delle Bagatelle, che elogia la vigliaccheria rendendosi imbarazzante per i fascisti, è «carico di verità».
Valore è una parola chiave non solo in senso morale: per il critico che si assume l'impegno di esprimere sempre un giudizio, netto anche quando è il risultato di successivi distinguo. Insomma, Bellocchio è di quei saggisti-saggisti del tutto idiosincratici si direbbe, cioè non assimilabili a nulla e a nessuno. Neanche ai maestri amati Fortini e Cases (eventualmente più al secondo che al primo), né ai suoi sodali più vicini, come Goffredo Fofi (insieme, con Grazia Cherchi, furono magna pars dei «quaderni piacentini») o Alfonso Berardinelli, con il quale per un decennio (1984-1993) Bellocchio elaborò quell'«opera a puntate» in forma di rivista (a due mani) che era «Diario», passando dalla mischia critico-culturale più accesa alla dimensione personale. Refrattario ai (suoi) libri, Bellocchio ha sempre atteso di essere pregato dagli editori per pubblicare.
Idiosincratico significa anche estraneo al metodo, svincolato da ogni schema al modo di un suo maestro ideale, Edmund Wilson, che nel libro di Bellocchio sta al centro, come una luce di chiarezza e di intelligenza che illumina la raccolta: lettore prima che critico in senso specialistico (anche se poi, quando c’è da sondare il testo, non esita a farlo con acribia). Al cospetto di Wilson, il giovane Bellocchio esclamò: capisco tutto! Ecco un pregio ereditato dal grande critico saggista americano, insieme con la vocazione didattica, nella convinzione che la critica è servizio al lettore più che a sé stessi: «Mi sono sempre posto il problema della chiarezza del comunicare — ricorda Bellocchio nella sua casa di Piacenza, dove abita da sempre —. Fino ai vent'anni, sono stato un disegnatore: ma la cosa che mi piaceva di più era il bianco e nero, il disegno, lo schizzo, la caricatura, lavorare di matita o di penna, non l'olio né il colore. Questo è forse anche un tratto della mia scrittura, il contrasto un po' elementare tra il bianco e il nero».
E però tra il bianco e il nero ci sono infinite sfumature che emergono leggendo Dickens e Orwell, Dostoevskij e Fenoglio, Pasolini e Bianciardi. Sono questi alcuni degli autori del suo canone. «Ma no — risponde sfogliando questo libro — è tutto un po' casuale. Per esempio, per Dickens mi spiace che non ci sia Grandi speranze, per me il suo romanzo migliore, e avrei dovuto approfondire Dostoevskij, che qui è molto stringato, ma ci voleva più spazio e io sono uno molto disciplinato».
Colpisce l'assenza di Camus, dal giro di passioni di Bellocchio: «È stato un autore dei miei vent'anni, poi l'ho allontanato, tranne essermi riconciliato pienamente con lui grazie a Il primo uomo, l'autobiografia, il suo libro più bello, pubblicato postumo nel 1994». Si può forse intravedere un motivo ricorrente nel fallimento come «forma di virtù» (così come viene riconosciuto da Orwell) che comporta il quasi programmatico rifiuto del successo («una specie di prepotenza») e degli eroi vincenti: «II fallimento è un destino che conosco abbastanza: lo dico in senso politico generale, le cose non sono andate bene per noi di sinistra... Anche se non c'è limite al peggio. C'è un abbassamento del livello intellettuale e culturale spaventoso: siamo in mano a delle bestie, e parlo di politici e di scrittori... tutto si tiene». In questo clima, la rinuncia è una virtù? «Ma, non so, è vero che io mi sono abbastanza astenuto: è nel mio carattere. Ma penso che sia importante non fare piuttosto che fare per forza, meglio astenerti se non puoi fare bene. Poi naturalmente c'è anche la pigrizia, che a volte ti salva. Io non ho sofferto l'ingratitudine del lavoro: infatti sono povero, non ho più un soldo, ho campato a lungo sulle rendite senza mai sprecare nulla. La mia era una famiglia numerosa e facoltosa che mi ha permesso una libertà notevole, ma a un certo punto non ce la fai più, devi vendere qualcosa per andare avanti, è una scelta obbligata, e imposti la vita in un certo modo, con quel poco che hai. Noi dei «quaderni piacentini» avevamo una specie di terrore del lucro, appena vendevamo un po' abbassavamo il prezzo senza tesaurizzare. Abbiamo sempre lavorato gratis, sempre». Non era un lavoro individuale, era un lavoro collettivo, per la causa... «Avevamo sempre bisogno del giudizio dell'altro, la lode di Fortini o di Cases era apprezzata, ma anche con loro che erano un po' più vecchi la comunicazione era serrata. In parte si faceva insieme, la cucina era comune...». Anche con figure che oggi potrebbero sembrare marginali, come Danilo Montaldi, di cui nel libro c'è un ritratto molto partecipato: «Danilo è stato un personaggio notevole a modo suo, nella sua originalità e unicità. Persone che hanno fatto le sue scelte non ce ne sono molte: fedele a una sua idea, era un intellettuale proletario rimasto proletario, se ne fregava dei soldi: e non parlo solo del valore ideologico, ma del valore dell'autore di libri stupendi come Autobiografie della leggera». A 88 anni, dopo tante battaglie perse, prime tra tutte quelle contro la chiacchiera culturale e contro la dispersione futile delle parole (non solo in politica), c'è una bella (brutta) delusione anche verso la letteratura: «Negli anni formativi — ricorda Bellocchio — sono stato un lettore onnivoro e vorace, oggi la fame è indubbiamente diminuita, anche se ancora mi sento più lettore che scrittore. Ormai non leggo quasi nulla di quel che esce, non sono proprio attirato, tantomeno dalle opere di invenzione, preferisco rileggere le cose di una volta, e comunque preferisco le testimonianze, la memorialistica, la saggistica storico-politica. E una sfiducia forse ingiustificata ma istintiva, è così, in più è subentrata anche la vecchiaia, la stanchezza». Il pessimismo non è nuovo: basti dire che nell'84 uno dei nomi in ballo per «Diario» era, certo con una venatura autoironica, «Prima di crepare». «Sono passati più di trent'anni... La vecchiaia è una brutta bestia, e ormai non c'è verso di morire, la vita è troppo lunga. Io non avrei mai pensato di arrivare a questa età, mi sorprendo un po' se penso che ho 88 anni. Ma l'età pesa, c'è stanchezza e cattiva voglia, non riesci più a concentrarti, la scrittura è un lavoro materiale, un impegno fisico e io sento che non ce la faccio più».

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