Recensioni / Democrazia quanta fatica dal Muro fino ad oggi

Sarebbe azzardato affermare che dopo l’annus mirabilis del 1989 (crollo del muro di Berlino e collassodell’URSS e dei regimi comunisti dell’est europeo) si assiste a una crisi sempre più grave delle democrazie liberali che conoscerà un’accelerazione e un’intensificazione senza precedenti con la crisi finanziaria del 2007/2008? Il paradosso che il pensiero democratico oggi cerca in tutti i modi di spiegare è come mai la democrazia liberale, uscita vittoriosa dalla competizione con il suo avversario storico, ad un certo punto si è venuta a trovare esposta a rischi e contraddizioni che ne minaccianoseriamentela sopravvivenza.
Senza dubbio, siamo di fronte a un vero e proprio blocco della cultura democratica nel pensare la politica così com’è e come dovrebbe essere, compresa la cultura della sinistra nella varietà delle sue tradizioni. È come se il lessico filosofico e politico dei valori universali di libertà ed eguaglianza, che a partire dalla Rivoluzione francese e dall’Illuminismo ha scandito il tempo storico della modernità occidentale,sifosse ammutolitoe svuotato di significato. Al suo posto sono riapparsii demoni-che cieravamo illusidi aver definitivamente sconfitto - del nazionalismo e del razzismo, dell’odio verso l’altro e il diverso, dell’invocazione del capo carismatico capace di rappresentare senza mediazioni la volontà popolare. Nella sterminata letteratura di autori, testi, correnti di idee che dopo il 1989 hanno tentato di mettere a fuoco la crisi della politica e congiuntamente la crisi della cultura democratica- sianelleloro versioniliberali chein quelle di provenienza marxista - possono servirci da filo di Arianna tre libri appartenenti ad aree intellettuali e geografiche tra loro molto distanti, ma accomunati dalla medesima volontà di fare chiarezza sulla specificità della fase storica in corso. Il primo è un volume a più voci, Crisi dell’immanenza. Potere, conflitto, istituzione, a cura d M. Di Pierro e F. Marchesi (Quodlibet, Macerata 2019), che si annuncia come la prima parte di un “Almanacco di filosofia e politica”, diretto dal filosofo Roberto Esposito. Il secondo è il volume di due teorici della politica, l’argentino Ernesto Laclau (1935-2014) e la belga Chantal Mouffe, Egemonia e strategia socialista. Verso una politica democratica radicale (il melangolo, Genova 2011) e il terzo è il Manifesto convivialista. Dichiarazione d’interdipendenza (ETS, Pisa 2014).
Già il titolo del primo evidenzia l’obiettivo di ripensare i concetti fondamentali della tradizione filosofico-politica occidentale. Nella prefazione Esposito solleva due interrogativi: 1) “come storia, politica e pensiero s’intrecciano nell’attuale scenario?”; 2) “che ruolo ha giocato la filosofia nello scontro politico dell’ultimo mezzo secolo, concluso da una netta sconfitta della sinistra mondiale?”. La risposta di Esposito a queste due domande cruciali rivela sùbito i limiti di un’impostazione metodologica che assegna all’approccio filosofico il monopolio esclusivo dell’analisi del presente e delle trasformazioni epocali scaturite dalle logiche della globalizzazione. L’approccio filosofico, infatti, non ha strumenti concettuali sufficienti per afferrare le logiche geopolitiche e geoeconomiche intimamente contraddittorie di una modernità ormai globalizzata. Senza l’interazione con le scienze umane la filosofia diviene un discorso autoreferenziale, rivolto solo a ricostruire la sua storia interna, cessando così di essere creazione di nuovi concetti di analisi sociale ed esistenziale. È ciò che nel Novecento è accaduto con Heidegger che ha posto al centro della riflessione filosofica la questione dell’essere e la differenzatra l’essere e glienti: la questioneche in termini tecnici è nota come la questione ontologica. Per Heidegger la politica è una forma di manifestazione dell’essere e come tale va compresa nella sua storicità necessaria. La sfera politica è uno dei luoghi in cui l’essere viene alla luce con caratteristiche ogni voltadiverse epocaper epoca.
Ora, ciò che importa segnalare è che il paradigma filosofico di Heidegger, che nella fase giovanile del suo itinerario speculativo aveva aderito al nazionalsocialismo, ha occupato la scena della cultura filosofica del secolo scorso fino a influenzare intellettuali di sinistra come Marcuse, Derrida, Nancy, Lacoue-Labarthe, Agamben (il cosiddetto “left heideggerianism”). E nella schiera degli “heideggeriani di sinistra” si inscrive, volente o nolente, lo stesso Esposito, il quale nel suo libro Pensiero istituente (Einaudi 2019) propone un’ontologia politica capace di recuperare la differenza tra essere e politica che in autori come Gilles Deleuze (1925-1995), a suo avviso, erano stati totalmente identificati (nel senso che tutto ciò che è, è politica). “Tutto è politica” era stato uno slogan del ’68 e il pensiero di Deleuze, ponendo l’accento sul desiderio e sulla contestazione di ogni codice etico-politico esistente, ne incarnava la carica libertaria ed emancipativa. Ma per cogliere la ragioni della “netta sconfitta della sinistra mondiale”, a cui Esposito si riferiva, non basta affermare che essa è dovuta al “passaggio di egemonia” chenella culturaeuropeasiè verificato con la svolta verso il “postmoderno” negli anni 1980/1990. I rappresentanti più autorevoli di quest’ultimo, a cominciare da Lyotard, hanno celebrato la fine dei “grandi racconti” della modernità, cioè di tutte quelle filosofie della storia (incluso il marxismo) che interpretavano il divenire storico come governato da una necessità immanente e da un fine ultimo (religioso o secolare che fosse).
A un pensiero negativo come quello della Teoria Critica della Scuola di Francoforte subentrava, così, un pensiero affermativo volto ad accelerare tutte le tendenze creative e produttive del desiderio: le tendenze della distruzione creativa, come avrebbe detto Schumpeter per descrivere la logica interna del capitalismo. Ma, come sostengono E. Laclau e Ch. Mouffe nella prefazione alla seconda edizione del libro sopra richiamato, la svolta verso il “postmoderno”èl’indice chesiamogià sul terreno del post-marxismo, vale a dire che siamo entrati in un’era del tutto nuova, che è quella di una “società globalizzata e informatizzata”. Sicché le categorie ereditate dalla teoria marxista vanno interamente decostruite, reinterpretate e, in un certo senso, superate.Anche Laclau e Mouffeparlano di “ontologia politica”, un’espressione con cui intendono l’essere sociale del capitalismocontemporaneo,coni suoi fenomeni di complessificazione sociale e i suoi incessanti mutamenti tecnologico-produttivi. Questo nuovo campo di realtà, che apre anche un tempo storico inedito, non può essere più ricondotto sotto le categorie tradizionali, per esempio la categoria marxiana di “classe universale”, con cui veniva indicata la capacità del proletariato di rappresentare gli interessi di tutte le altreclassi. Ma lo sforzo di Laclau e Mouffe, una olta preso atto che il marxismo tradizionale si è inceppato, è quello di dare un contributo al ripensamento della cultura democratica: un contributo che non si risolva in elucubrazioni accademicheo in teorieprive diqualsiasi ricaduta nell’ambito della prassi, ma tale da proporsi come un’intelligenza, sia pure parziale e provvisoria, dei processi di lotta per l’emancipazione individuale e collettiva. Anzitutto, Laclau e Mouffe stabiliscono un punto fermo nel recupero pieno dei valori della democrazia liberale. “Nella nostra prospettiva - essi scrivono - il problema delle democrazie liberali «esistenti» non risiede nei loro valori costitutivi, cristallizzati nei princìpi di liberta`e uguaglianza per tutti, ma nel sistema di potere che ridefinisce e limita il funzionamentodi talivalori”. Sottoquesto profilo, essi difendono un progetto di “democrazia radicale e plurale”, concepito come un’“estensione delle lotte democratiche per l’uguaglianza e la liberta`a una piu`ampia gamma di relazioni sociali”. Da questo angolo visuale, risulta quanto mai penetrante la critica chespecialmente Laclau muovea tutte quelle posizioni che, al pari di A. Negri e M. Hardt, prospettano un concetto irrealistico di “impero” senza confini e senza centro, a cui contrappongono i nuovi barbari della “moltitudine”, cioè di coloro che si ribellano ai multiformi meccanismi del dominio. Così pure, Laclau contesta radicalmente la tesi di G. Agamben secondo cui la relazione politica originaria sia la messa al bando, cioè l’esclusione al di fuori della comunità di una serie di figure considerate al di sotto della soglia di umanità, sicché il modello biopolitico dell’Occidente sarebbe non lo spazio della città, ma il campo di concentramento. Una tesi mutuata da Carl Schmitt e dalla sua idea che la sovranità dello Stato moderno si fonda sul rapporto amico/nemico (Laclau, Le fondamenta retoriche della società, Mimesis, Milano 2017).
Il paradosso è che Laclau e Mouffe rimproverano agli autori italiani la scarsa simpatia per Gramsci, soprattutto la mancata comprensione del concetto di egemonia. Applicare la categoria di egemonia al “mondo globalizzato” significa rendersi conto che l’ordine geopolitico e geoeconomico vigente – compresa l’Unione Europea - è il risultato di rapporti di “movimenti egemonici da parte di specifiche forze sociali, che sono state capaci di implementareunaprofondatrasformazione nelle relazioni tra imprese capitaliste e Stati-nazione”. Ora, è da questa egemonia che è nato il mix micidiale di sovranismo e neoliberismo oggi così diffuso in Europa, e che la cultura democratica e di sinistra dovrebbe sfidare non già ponendosi sul suo stesso terreno, ma elaborando concretamente un nuovo progetto egemonico capace di “articolare” sia in chiave di “redistribuzione” delle risorse sia in chiave di “riconoscimento” delle identità sociali e culturali la pluralità delle voci e delle istanze presenti nella società. Qui Laclau e Mouffe si incontrano con autori come Claude Lefort (1924-2010) che mettono l’accento sul fatto che non c’è democrazia politica senza conflitto e senza divisione (secondo la lezione di Machiavelli), ma neanche senza egemonia: la democrazia può sempre rovesciarsi nel suo contrario, quando si fa strada l’illusione che l’antagonismo delle forze sociali può essere cancellato nell’omogeneità di un regime tendenzialmente totalitario che riduca i Molti in Uno.
Il terzo libro è il Manifesto convivialista. Dichiarazione d’interdipendenza (Ets, Pisa 2014), il cui animatore è l’economista-sociologo Alain Caillé, direttore della “Revue du MAUSS” (acronimo di Movimento Antiutilitarista nelle Scienze Sociali). In questi giorni è uscito in Francia, presso le Éditions Actes Sud, un Secondo Manifesto, che riprende e amplia i contenuti del precedente. Si tratta di un testo singolare che ha ricevuto l’adesione di quasi trecento personalità attive in ogni campo (arte, cinema, giornali, università, media, ecc.), ma anche da parte di movimenti sociali che lottano per la giustizia climatica, per l’eguaglianza o per la libertà degli oppressi, e di movimenti religiosi. Esso si propone di colmare il divario profondo che tra teoria e prassi – tra elaborazione culturale e azione politicaconcreta –dopo il 1989 siè andato sempre più scavando in Europa e nel mondo all’interno delle forze politiche democratiche. Lo scopo dichiarato è di dare vita a una rete di rapporti intellettuali e politici, una sorta di Internazionale Convivialista, tale da porre al centro del dibattito pubblico le sfide della nostra epoca (diseguaglianze, migrazioni, giustizia climatica, Diritti Umani, stili di vita, ecc.) e tale da rivitalizzare la speranza di costruire – con gli uomini e le donne di buona volontà - un mondo migliore, non più intrappolato nel mito di una crescita meramente quantitativa che sacrifica lo sviluppo umano e la pluralità delle culture e dei talenti individuali. L’auspicio è che le forze politiche, i movimenti sociali e le correnti religiose italiane ed europee più sensibili raccolgano quest’appello e prendano sul serio le istanze di rinnovamento e di reinvenzione della democraziain esso contenute.