Recensioni / Difficile dire l’amore

Dopo sei anni dall’edizione francese, esce in Italia Malintesi (Quodlibet, 2019) di Bertrand Leclair, drammaturgo e critico letterario. Nato incapace di udire, Julien (come l’Apostata senza battesimo) prova a emanciparsi dall’ingombrante padre Yves, la cui voce si sovrappone a quella dell’autore – padre di una figlia sorda – che con forza invettiva tenta attraverso la scrittura di sostenere il trauma dello scherzo della «lotteria genetica».
Fino all’ultimo si ha l’impressione che i nodi non siano sciolti: le pagine sono piene di punti di sospensione, che traghettano dalla storia della famiglia Laporte a un excursus sulla “cultura della differenza” della Francia degli anni Settanta. Sono tutti arrabbiati e, con la complicità di una moglie remissiva, il padre Yves non riesce a comprendere Julien e segue le regole sancite da manuali e prassi in seguito al Congresso di Milano: il ragazzo è costretto a rinunciare alla lingua dei segni per demutizzarsi.
Quello dell’accessibilità delle relazioni sociali è un tema ancora attuale: la tentazione di rieducare i figli a sforzarsi di parlare, per tramandare le “pietre preziose ancestrali” del Verbo, può aprire una riflessione più generale su genitori e figli. Alcuni genitori oggi osservano i figli come depositari dei codici di nuove tecnologie e dispositivi, di linguaggi più gestuali che verbali, talvolta frutto di un processo di disapprendimento.
Invece di denunciarne i tic e di accanirsi a favore del logos, i padri affidano alla prole il fardello del futuro. Ma come per Yves Laporte, che non a caso conosce la moglie lavorando nella tipografia del suocero, è «difficile dire l’amore» e le cose in comune, in qualsiasi lingua. L’affettività è sempre mediata da oggetti ma ci sono solo pochi mobili a suggerire la casa in cui il padre perde e ritrova i suoi appunti disseminati in piccoli quaderni rossi, di rabbia e amore.
Si scioglie in poche righe tutto questo amore, quando ormai ci si sente affaticati dalle parole dell’autore, e non è vano aver tentato di andare oltre la luce artificiale e ovattata della casa borghese dei Laporte. Tutti vivono chiusi finché Julien non scappa. «A immagine di cosa sono nato?»: la domanda non ci consegna tanto il problema del «nascere a immagine del creatore» ma quello di capire come mettere al mondo qualcosa con l’intelligenza del cuore, che sa travalicare le generazioni.
Tornerà Julien? Avrà costruito «un mondo in cui si pensa con le mani»? La lingua dei segni è energica perché immersa «in un mondo di un’alterità radicale». Attraverso la sorella di Julien, la passione contro una società razzista permette ai personaggi del romanzo e a tutti noi di superare il dramma di non essere compresi riformulando la domanda da perché e come parliamo con quella: per chi parliamo?