L‘artista più giovane
di tutti», come Jim
Dine si presentava
nei ruggenti Sessanta, e rimasto -
fra i popular artists
che nel '64 scioccarono la Biennale di
Venezia - l'ultimo in attività (di Claes 01denburg e di quello che forse fu il più grande, Jasper Johns ultranovantenni di lui
più anziani di sei anni -, da un po' si sono
perse le tracce). E risultano tra i suoi più
forti, gli ultimi lavori in ordine di tempo
esposti nella magnifica retrospettiva -
Jim Dine, fino al 2 giugno; catalogo Quodlibet con preziosa cronologia di Paola Bonani, pp. 304, 28,00) - che Daniela Lancioni ha curato al Palazzo delle Esposizioni di Roma, e che s'incentra sulla grande
donazione fatta qualche anno fa dall'artista al Centre Pompidou.
Cominciò tutto con l'happening. Giusto
sessant'anni fa. Il copywriter del termine, Allan Kaprow, a due anni dal trauma della
morte di Jackson Pollock così tratteggiava,
nel '58, la sua legacy (ripetendo la battuta di
Poussin su Caravaggio): «ha fatto dipinti
magnifici, ma ha anche distrutto la
pittura». Enfatizzando la «danza»
del dripping, Kaprow concepisce
l'artista, non solo psichicamente
ma fisicamente, dentro il quadro:
«individualismo e spossessamento, entrambi portati all'estremo».
Non più "quadri" quelli di Pollock,
ma environments». Dopo di lui, solo due strade: o scimmiottare il
suo gesto (così, all'inizio, aveva fatto Kaprow) o proseguirlo, «sbarazzandosi una volta per tutte della
pittura in quanto tale»: in un «rituale che avviene [happens] usando la pittura come solo uno dei
propri materiali».
Alla Judson Gallery
L'anno dopo, in un dibattito sui
Nuovi usi della figura umana in pittura alla Judson Gallery (uno spazio
nell'ostello d'una chiesa, giù alla
Bowery), ad accapigliarsi con Kaprow si presentano due giovani.
Uno è Oldenburg; l'altro un poco
più che adolescente tarchiato, precocemente pelato e per di più dislessico, a New York piovuto da
qualche sprofondo dell'Ohio: il
suo nome è Jim Dine. I due scavezzacollo sono invasati di Artaud e
Art Brut, Jim smozzica qualche
battuta sulle «facce» che dipinge
(«sono maschere, ma sono facce»;
tanti anni dopo a Germano Celant
dirà: «sono me, che tiro fuori le
mie emozioni»), poi tutta la truppa - cui si sono aggiunti anche
Johns e Rauschenberg- migra alla
Reuben Gallery, altro spazio underground. al Village Dove nell'arco di
pochi mesi, nel '60, il fenomeno
happening si accende, lampeggia,
avvampa abbagliante. Per poi spegnersi, all'improvviso come era
cominciato.
Con determinazione sin d'ora
feroce Jim lo prende in parola, Kaprow: nel primo happening una «figura umana» - la sua - si presenta
fisicamente immersa nella pittura.
Il tutto, bizzarro e violento, si conclude nel giro di tre minuti: alla fine «erano tutti impazziti». Così oggi Dine ricorda
The Smiling Workman: con un mantello rosso e la faccia dello stesso colore, su una tela
enorme compita la scritta «I LOVE WHAT
I'M DOING»; poi (la sua voce, in mostra,
commenta splendide foto d'epoca) «ho preso la pittura da terra, l'ho bevuta, mi sono
rovesciato il resto sulla testa e sono saltato
attraverso la tela». Un'altra sera mette in
scena i Car Crash dai quali l'anno prima s'è
salvato, ma in cui ha perso il miglior amico
del liceo: anticipando di tre anni lo splendore funebre di Andy Warhol, e di dieci la
sessualizzazione morbosa di J.G. Ballard
(giusto a Londra, Dine vivrà dal '67 al '71).
Le sue esplosioni saranno in tutto solo
quattro (ci sarà un après coup, nel '65, ma
tutto diverso; nel '61 non sarà un happening, bensì un environment, Spring Cabinet:
in cui secchi meccanizzati - in sarcastico
omaggio al dripping pollockiano - fanno colare il colore sulle tele). Poi a un amico, alla
fine del '62, consegna quella che è quasi
una dichiarazione ufficiale: «ho cominciato a vedere una crescente accettazione di
qualunque cosa si facesse . Essendo io un
pittore e vedendo questa parte del mio
mondo minacciata dal bisogno di maggior
teatralità, mi ritirai nella pittura». E così sarà, da allora sino a oggi.
Quale continuità fra gli happenings '60 il tutto-pittura a seguire? La teatralità secondo Alberto Boatto, che lo va a trovare
nel fulgido '64 (si legge in New York 1964
New York, il bellissimo memoir pubblicato
da Italo Svevo e recensito su queste pagine): quella di Dine è un'«arte sempre concettuale» proprio perché «spinta ai limiti
dello spettacolo» («rigido come un cerimoniale», scrive nel '67 nel gran libro sulla Pop
Art: antitetico dunque all'imprevedibilità
di Kaprow). Ogni oggetto, indumento o
utensile che l'artista dipinga o installi sulle tele, fa pensare a Boatto a «una serie di
autoritratti»: «documenti autobiografici,
ma attraverso l'estraneità d'immagini prima come riflesse dentro gli specchi e poi
spogliate di ogni connotato personale».
Tutta la mostra romana s'iscrive tra le
Small Heads del '59, i cui colori vorticano attorno a occhi che ci fissano spalancati, e
Two Large Voices Against Everything, coppia
di facce-muro dilavate e graffiate del 2016.
Autoritratti-chiasmo: a occhi aperti e
bocca chiusa i primi; clamanti nel deserto «contro tutto», ma cogli occhi cancellati, i secondi. Ma in un certo senso sono
autoritratti, pure, tanto la Scarpa presentata a Venezia nel '64, dipinta su un quadro-mensola che «fiammingo» aggetta
verso di noi (a Gene Swenson dirà Dine
che i pittori da lui più ammirati sono Van
Eyck e Van der Weyden, per il loro modo
di «manipolare lo spazio»), quanto le magnifiche, vagamente oscene Bretelle, sul
quadro fissate ma poi dipinte d'un palpitante rosso-carne, e le celebri Pale dello
stesso '62: a loro volta installate nell'opera e dipinte, stavolta, d'un tenebroso nero-carbone. Self portraits intitolerà in effetti, più avanti, i suoi Accappatoi vuoti. Non
solo perché questi oggetti evocano per lui
il romanzo famigliare ciel nonno e del padre, erculei gestori di ferramenta nel vecchio Ohio: ma in quanto emanazioni psichiche e statements d'autore: alla stregua -
dirà Meyer Schapiro, nel '68, contra Heidegger - delle scarpe di Van Gogh.
Sintassi pop, «imagery» disneyana
L'individualismo e lo spossessamento portati
all'estremo di quest'autobiografia de-personalizzata configurano allora - come già in Gertrude Steín - un'autobiografia di tutti: proprio come
quella che ogni attore (magari di
matrice strasberghiana) porta sulla scena. Ed è il più allusivo degli
archetipi l'avatar sul quale Dine
torna, ossessivo, ormai da una ventina d'anni: e che ci accoglie
nell'ultima, grandiosa sala della
mostra. Anche il suo Pinocchio,
certo, è una maschera spossessata di
sé (virata com'è, secondo sintassi
pop, dall'imagery disneyana: ma
pure lui con perturbanti occhi
piallati, accecati). Simbolo di metamorfosi e feticcio sacrificale, è
al contempo artefice e manufatto:
infatti la sua versione più lancinante ci si presenta sospesa da un
gancio metallico di sollevatore (di
quelli usati, spiega Lancioni, «nel
trasporto fine art per movimentare le sculture») ma con una sega in
mano: perché dentro di sé ha introiettato pure Geppetto (come il
Benigni di Matteo Garrone, puer senex che alberga il dinoccolarsi cigolante del pupilla; Pinocchio, Geppetto, and Other Personal Metaphors è
il titolo d'una personale parallela
a questa romana, in corso a Bloomington, Indiana).
Come in ogni autobiografia,
l'ultimo capitolo riepiloga e fa da
indice: sul muro del Palazzo, attorno ai suoi Pinocchi, Dine ha
vergato i «poemi murali» (così li
chiama Annalisa Rimmaudo in
catalogo) brevettati nell'ultimo
decennio. La consuetudine con la
poesia (cioè, ha detto, «l'inconscia divenuto materico») è un dato originario, ma a partire dal '68
- con la maieutica di Robert Creeley, ma anche di John Ashbery e
Vincent Katz- ha preso anche più
volte la strada del libro. E che Dine abbia finito per scriverla-disegnarla sui muri del suo environment psichico ha il significato di
un ritorno a casa. Il Lavorante è
tornato a Sorridere.