Si chiama Anteo, come il gigante
della mitologia che sbranava i
leoni e traeva la sua forza dal
contatto con Gea, sua madre, la
terra. È però un tipo gracile e
mingherlino, non farebbe male a una
mosca e ritrova il suo equilibrio e la sua
stabilità solo quando riesce a sollevarsi
per aria. Se non fa onore al suo possente
omonimo, ha comunque leggendari
precursori il protagonista di Il levitatore,
l'ultimo romanzo dell'italo-argentino
Adrian Bravi: Giuseppe da Copertini, la
santa Douceline, Simon mago, lo psicocinetico Willi Schneider, tutti dotati,
stando alle antiche cronache o ad agiografie più o meno apocrife, della capacità di sollevarsi dal suolo. Bravi ha studiato il problema, e potrebbe addirittura
aver sperimentato di persona il volo rasoterra del suo eroe, se si dà credito alla
meravigliosa leggerezza che contraddistingue la sua scrittura. Ci confeziona
così un'altra delle sue dottissime favolette, un apologo esilarante, un exemplum
dal vago sapore medievale trapunto di
spassosissime gag.
Lo schema della storia è semplicissimo: nel mezzo del cammino di sua vita il
suddetto levitatore, che dall'età di circa
quattordici anni pratica l'arte di «sgravitarsi» - sempre in segreto, al chiuso e
con modestia – incappa in una serie di
circostanze che fatalmente lo tirano giù.
E non si tratta tanto dello zio demente
che si ostina a suonare alla sua porta per
metterlo a parte delle sue stramberie,
quanto delle visite sempre più frequenti
del postino che gli consegna certe raccomandate dal colore inquietante: il verde
pastello delle contravvenzioni e delle
convocazioni alla polizia giudiziaria,
beige caffellatte delle missive degli avvocati e degli inviti a presentarsi in tribunale. Proprio quando lui è lì tranquillo — è
orfano da un pezzo, divorziato, disoccupato, dispone di un gruzzolo ereditato
che gli consente di mantenersi senza
pensieri, non ha figli, ha solo da rispettare il suo attesissimo turno, in alternanza
con la ex moglie, per portare a spasso
l'adorata cagnolina Platina - proprio
quando si appresta a sedersi in silenzio
con le gambe incrociate per staccarsi di
qualche centimetro dal pavimento, ecco
che la gravosa, squallidissima realtà lo
riacciuffa. A perseguirlo e perseguitarlo
è la ex consorte che ancora non riesce a
liberarsi di certe sue paranoie. Sarebbe
disdicevole rivelare qui la soluzione della
questione legale, la «questione Ginetta»,
immancabilmente sottolineata da un
minaccioso corsivo, che, a dispetto di tutto, pesa come un macigno sulle spalle
del leggerissimo Anteo. Guasteremmo la
festa al lettore e sbaglieremmo completamente la prospettiva, perché il punto è
piuttosto che, anche con quella zavorra
addosso, il levitatore continua a dare alle
noie legati, alle meschinerie matrimoniali, ai cascanti e «ai pattumi» della vita
il peso che si meritano. Non giudica, non
protesta, non subisce. Lascia che accada,
puntando con pazienza a sollevarsi.
La sua forza sta in quel distacco lieve
grazie a cui, decollando in levitazioni
assolutamente inappariscenti, l'antitesi
di Anteo prende le distanze da «questa
terra maledetta», come ripete, con un
altro minaccioso corsivo che ritorna con
una ridondanza dal ritmo comico perfetto. Sfugge così a una più temuta prigione, a tutto ciò che ci trattiene, «alla forza
di gravità che ci incatena». C'è tanta ironia, tanta poesia nel gesto del levitatore
che sguscia fuori senza farsi vedere dalle
situazioni più gravi e intricate. C'è la profondità degli yogin in meditazione, di cui
prima di decollare assume solennemente la postura. E la perspicacia dei filosofi,
di cui evoca le teorie sulla divisione dell'anima: «una parte ferma dentro di me e
una tra le sfere del firmamento». C'è
l'intuizione di una segreta forza cosmica,
«un venticello arrivato chissà da dove»,
che in fondo non ha niente di misterioso
dacché, rivela con innocenza il gracile
Anteo, «dipendeva anche da una forza
del cuore che arrivava chissà da dove».