In queste settimane di lutto e
timore, sono stati citati molti
grandi scrittori. Sacrosanto
esercizio, perché lo scopo del
classico consiste appunto nel
toccare il nucleo radiante
dell'esperienza umana,
affratellandoci nella gioia,
aiutandoci nel dolore. Tra tanti
nomi, però, ne mancava uno, e
forse la sua assenza non è stata
casuale. Stiamo infatti parlando
del massimo bastian contrario fra
i poeti. Mi riferisco a Giuseppe
Gioachino Belli, di cui Quodlibet
ha ora edito l'Epistolario
(1814-1837), a cura di Davide
Pettinicchio.
A noi adesso, però, interessa un
unico sonetto, Li beccamorti.
Fu scritto nel 1834, ma occhio
al giorno: era 18 marzo,
come oggi. Purtroppo racconta
di una situazione esattamente
opposta a quella attuale: si
tratta infatti del monologo di un
becchino che rimpiange i bei
tempi passati, quando le
malattie falcidiavano migliaia
di persone e i suoi affari
andavano a gonfie vele.
Il cinismo del discorso lascia
sgomenti: rammaricarsi per la
salute pubblica, invocare
l'arrivo di un'epidemia...
Ma è proprio questo il gioco di
Belli, il quale, per farsi capire
meglio, ci mostra le cose
sottosopra.
La sua scorrettezza politica
potrebbe far pensare alla
mostra del «Male», la scintillante
rivista satirica che divise a suo
tempo l'Italia, e che è stata
festeggiata in una bella mostra
al Wegil di Largo Ascianghi 5.
E viene in mente anche il comico
britannico Ricky Gervais, che
nella cerimonia in mondovisione
dei Golden Globe ha esordito
dicendo: "Non arrabbiatevi, è
solo uno scherzo. In fondo
moriremo presto, e non ci sarà
un sequel".
Sotto certi aspetti anche Belli è
totalmente irriverente, ma con
una differenza sostanziale:
blasfemo in superficie, il suo
sentire è sempre radicalmente
compassionevole.
Vediamo ad esempio il sonetto.
Già con la prima quartina (ne
adatto appena la grafia)
piombiamo nell'assurdo: "E che
affari vòifà? nessuno more: / sto
po' d'aria cattiva è già finita: /
tutti attaccati a sta mazzata
vita... / Oh, va' a fà er
beccamorto con amore". In altre
parole, a che serve nutrire
affetto per i defunti, visto che
ormai nessuno vuole andarsene
più al Creatore e anzi resta
avvinghiato alla vita in modo
spasmodico - che colpo di teatro,
definire la vita "ammazzata",
ossia "maledetta"? Come se non
bastasse, non c'è un filo di
malaria ("aria cattiva"). Se
continua così, "la profession der
beccamorto è ita", cioè chi
seppellisce i cadaveri dovrà
chiudere bottega.
"L'annata bona fu in ner
diciassette. / Allora sì, in sta
piazza, era un ber vive, / ché li
morti fioccaveno a carrette".
Altra affermazione
apparentemente scandalosa: nel
1817 sì, che si viveva bene,
quando il tifo petecchiale causò
moltissime vittime, e quindi
portò lauti guadagni a chi
eseguiva le sepolture.
Non parliamo poi del finale:
"Basta...; chi sa! Matteo disse ieri
sera / c'un beccamorto amico
suoje scrive/che c'è quarche
speranza in sto colera". Adesso è troppo, verrebbe da
dire: spingersi fino a auspicare
un nuovo contagio!
Eppure Belli è qui, in tutto il suo
spirito provocatorio.
Non dobbiamo dimenticare che,
dietro il suo umorismo nero, c'è
un intensa dolcezza per le
creature, addirittura
francescana. Belli parla alla
rovescia, dice una cosa, per
affermare l'opposto.
In questi giorni, molti hanno
parlato della peste raffigurata
da Manzoni.
Ebbene, non è un caso se l'autore
dei Promessi sposi, malgrado
alcune riserve, apprezzasse
Belli.
Il motivo è evidente: il poeta di
Roma capovolge il reale per
farcelo vedere meglio, ma dietro
tanto sarcasmo la sua pietas è la
stessa del grande Maestro
Lombardo.