Fustigatore razionalista di costumi letterati e non letterari, Cesare Cases (24 marzo
1920-27 luglio 2005)
ha il pregio vero di
aver scritto solo l'essenziale. La sua presenza nelle patrie lettere, come
suona un titolo toccato dall'ironia - l'arma che gli era congeniale -, è affidata a pagine fihrate ogni volta dalla domanda, implicita ma riscontrabile, sulla
effettiva necessità di quanto andava a fermarsi sul foglio da inviare a stampa. Da qui la chiarezza di stile acuta e asciutta,
collimante con una lucidità di
giudizio tale che lascia al lettore un esercizio di pensiero da
svolgere - il più spesso-in dissidio, per la raclicalità della proposta, ammessa anche come faziosa. Cases è stato un saggista-polemista che ha visto il dialogo come necessario; le idee
dovevano articolarsi in discussione, altrimenti non valeva la
pena scrivere.
Germanista per settore disciplinare, di Cases neanche i titoli «scientifici» possono dirsi accademici: ogni suo scritto è nel
campo della militanza e, in questo campo, sta il dialogo col vicino, con qualcuno con cui c'è
qualcosa da condividere, base
essenziale per la polemica: si litiga infatti solo con gli amici. Tale dialogo è politico nell'accezione più ampia: riguarda l'igiene sociale, rispetto alla quale il
fatto letterario è un modo speciale di affrontare i fatti civili.
Un'altra conseguenza: a parte
forse la diversa densità del carico dottrinale, non si riscontra
in Cases un'impostazione variata tra saggi per rivista e articoli
per quotidiani o settimanali.
Per questo anche, come i migliori saggisti, alla maniera
dell'amato De Sanctis è stato
riottoso alla torma monografica, preferendo lasciar stratificare interventi su interventi, in
tempi diversi, su uno stesso oggetto: come è il caso di Mann e
soprattutto di Goethe e del Faust (tutti gli scritti sul capolavoro, che sono anche un dialogo
con Porcini, tra gli interlocutori
principali di Cases, sono ora
pubblicati da Quodlibet: Laboratorio Faust, a cura di Roberto Venuti e Michele Sisto). Un intellettuale (va proprio usato questo termine orinai in disuso)
che ha declinato il proprio giudizio politico a partire dalla letteratura, persuaso che un fatto
letterario sta dentro il corso delle cose e non conduce vita a sé.
Una persuasione profonda
quanto venata di scetticismo.
Gran parte dei suoi saggi è orclinata in tre libri einaudiani,
ovviamente fuori commercio:
Il testimone secondario. Saggi e interventi sulla cultura dei Novecento, 1985, che accoglie anche
una buona parte del precedente (1963) Saggi e note dí letteratura tedesca (compreso un ragionamento pieno di limitazioni e di
brillanti intuizioni dedicato a
Leo Spitzer); le straordinarie incursioni nella letteratura italiana consegnate a Patrie lettere
che nel 1987 raddoppia di mole
una prima edizione presso Liviana nel 1975; Il boom di Roscellino. Satire e polemiche, 1990, che
reca in testa l'opuscolo (1958)
Marxismo e neopositivismo.
Cominciamo da qui. Chi è Roscellino? «Quali tesori nascosti
contiene la Patrologia ciel Migne! (...) tra tutti i teologi e i filosofi medievali il più ameno, il
più scintillante, il più attuale è
Roscellino di Compiègne»: così
scrive il giovane critico Abrasati, d'accordo con Cyrus Wilson,
«il critico finissimo che gli editori italiani non vogliono tradurre, preferendogli i più oppiacei
epigoni di Marx e di Croce»..E l'istantanea di un'epoca, e reca la
data 1963, il famoso momento
dí sprovincializzazione della
cultura italiana. Il giovane critico, chissà perché, fonde i nomi
di Arbasino e Citati. Comunque: l'editore è preoccupato,
perché un paio di anni addietro
Abrasati ha lanciato un altro caso, »quasi un Landolfi di quell'età ellenistica che resta a noi così vicina», Nonno di Panopoli.
Così per Roscellino si avvia la
gara a chi lo stamperà per primo in una bella versione con
lunga introduzione: la spunta
l'editore Bustocchi su Pernigotti e diecimila copie vanno
via come il pane. Ecco, il racconto è lieve; e sodo è il pensamento su come si costruisce
un caso editoriale, anzi un'intera collezione di casi editoriali. lltocco di Cases è questo; per
averne conferma non c'è che
da andare poche pagine più in
là, alla polemica contro i logotecnocrati di Il poeta e la figlia del
macellaio: come prendono forma, che cosa significano, che
risvolti politici hanno le mode
critiche e i conformismi; o a Imparare dal nemico, circa «il pericolo che l'enorme aumento
della produzione dei mass inedia cancelli ogni possibilità di
scelta e quindi di critica».
Allo stesso tocco si devono in
Patrie lettere pagine dense di ammirate riserve su Gadda (Un ingegnere de letteratura): «Il Pasticciacio: veramente il capolavoro del
secolo o del millennio se fosse
possibile scrivere un capolavoro negando la nazione che l'ha
prodotto»: ma raramente, poi,
si è avuta un'indagine così capace di leggere i sostrati di Gadda,
l'antropologia messa in scena
nel gran libro, i conflitti di una
nazione irrisolta. Storiche sono
le Opinioni su Metello e il neorealismo, capitolo essenziale di una
delle più famose (e forse fumose) polemiche del secondo dopoguerra; ma irrinunciabili sono le pagine su Primo Levi e,
per altro verso, la stroncatura
dei laudatori di Mario Soldati, Il
baricentro nel sedere.
Non piccolo rilievo tra gli
scritti di Cases va assegnato ai
capitoli autobiografici: una rete di rapporti, di scelte di vita,
di schieramenti viene tratteggiata con umorismo e con la saggezza corrosiva del vegliardo,
con attenzione alle singole personalità: si tratta della sezione
iniziale di II testimone secondario,
intitolata Io e gli altri (due degli
altri sono Ernesto De Martino e
Raniero Panieri), dove spicca
la stupenda memoria Che cosa
fai in giro?<7i>, uscita nel 1978 in un
numero speciale del «Ponte» dedicato al quarantesimo anniversario delle leggi razziali, poi
riproposta a puntate nell'estate 1982 dal manifesto (e ora in un
volumetto degli «Asini» con introduzione di Luca Baranelli); e
si tratta delle Confessioni di un ottuagenario, pubblicato nel 2000
ma da leggere nella seconda edizione del 2003 (Donzelli), con
l'aggiunta dell'impagabile sezione Fari, dove si rammentano
gli incontri ideali e reali con autori variamente dì riferimento:
il ritratto dell'abate Galiani, col
memorabile epilogo su alcuni
suoi interpreti: «gli storici non
capiscono nulla di letteratura»;
Karl Kraus, il maestro di tutta la
vita, l'antigiornalista; Lukács
(la lettura di Storia e coscienza di
classe fu per me come cacio sui
maccheroni, poiché sovrapponeva il marxismo all'idealismo
e faceva degli intellettuali i deposita i dell'utopia»), Brecht,
Hans Mayer (»era un ebreo di
Colonia, quindi in qualche modo obbligato a dir battute, di
mediocre statura, ma di enorme coscienza di se stesso: applicava l'aggettivogross a qualsiasi
cosa avesse scritto»), Adorno,
Ladislao Mittner («le sue caratteristiche principali: l'enorme
estensione della sua cultura e
la scarsa attendibilità della sua
memoria»: questa seconda caratteristica comportava una serie di errori nei riassunti delle
opere nella grande Storia della
letteratura tedesca: «così accadde che un'opera fondamentale
della storiografia letteraria tedesca non fosse tradotta in tedesco. Né i tedeschi sapranno
mai che cosa si sono persi»).
Lukács è stato il filo che ha
segnato gli spostamenti e le
persuasioni di Cases. Ne danno conto le «vicende di un'interpretazione» - così il sottotitolo - ripercorse nei saggi di Su
Lukács (Einaudi 1985), ma non
è solo una battuta quella che si
legge in La perdita della totalità
(nel Testimone secondario) e che
vale, si crede, non solo per Cases. Dopo aver raccontato come il filosofo ungherese, scoperto per il tramite di Lucien
Goldmann durante gli anni
svizzeri, anche nel suo secondo periodo gli sembrava un sistema rassicurante per un asistematico, ovvero »il pensatore che meglio permetteva di
crearsi un'ideologia omogenea, sistematica, che non urtasse contro le colonne d'Ercole dello stalinismo, che cercasse dentro queste colonne
di ottenere il massimo», Cases aggiunge: «la questione del
ruolo dell'intellettuale direi
che è decisiva nella scelta sia
del primo che ciel secondo Lukács. Se uno legge Lukács, coscientemente o incoscientemente finisce per ritenere che
gli intellettuali sono gente importantissima, il che lusinga
sempre gli intellettuali medesimi»; col corollario che recita:
«il guaio dell'intellettuale è
che trova interessante solo il
suo simile» (Levi ripensa l'assurdo, in Patrie lettere).