Recensioni / Il piacere di capire

“La guerra non mi è mai sembrata tanto schifosamente orribile come ora: ma non si è mai pensato cos’è una vita umana?” Così il 19 giugno 1943 Pasolini in una lettera all’amico Farolfi citata in uno dei saggi del libro di Piergiorgio Bellocchio, da poco uscito nelle edizioni Quodlibet e non a caso intitolato Un seme di umanità. Sottotitolo, in levare si direbbe nel gergo musicale: Note di letteratura. Ma con apparente ossimoro il titolo è rinforzato da una citazione di Max Horkheimer in esergo: “Se soltanto conoscessi una parola migliore di “umanità” – questo povero slogan provinciale dell’europeo semicolto! Ma non ne conosco…” Titolo, sottotitolo ed esergo dicono, con apparente modestia, tutto sul libro: si tratta di una raccolta di saggi letterari estranea a tecnicismi filologici, a enfiagioni accademiche, a gerghi di scuola e caratterizzata piuttosto da un’ esemplare chiarezza quasi didattica che nulla toglie alla profondità dell’analisi. E attenta invece all’umanità, appunto. “Umanità” è termine astratto, e Bellocchio si guarda bene dal definirlo: lo pratica, lo usa come criterio sottinteso di analisi e di giudizio.
Del resto la misura prima di tutto, anche nella vita quotidiana non solo nella narrativa, è l’esperienza personale, l’esperienza vissuta del mondo e della vita reale. Un’esperienza che precede ogni astrazione, ogni tecnica, ogni ideologia, ogni statistica, ogni quantificazione. Umano è il disprezzato Samaritano che salva uno sconosciuto e umano è Enea che rallenta la sua fuga dalla città in fiamme per portare sulle spalle il padre Anchise. Umano è chi si sente responsabile del mondo, naturale e sociale, e solo da questa responsabilità vissuta può nascere la politica “buona”. Ed è responsabile chi persevera anche andando in senso contrario all’ordine apparente delle cose, chi pazientemente, testardamente ricomincia sempre da capo.
Ovviamente Bellocchio non discute di questo, non escludo che magari sia anche in disaccordo. Ma questo, a mio parere, è il sentimento che anima il suo interesse per la letteratura. E il criterio con cui legge i testi e li presenta a noi lettori, tenendosi lontano, lui uomo di sinistra, da ogni tipo di “cultura burocratizzata”. Il libro raccoglie saggi di carattere diverso: alcuni sono più lunghi e quasi didattici, e sono le introduzioni a libri di collane editoriali di classici, come i romanzi di Stendhal, Flaubert, Dickens, o le Memorie di Casanova. Altri sono invece recensioni vere e proprie uscite in giornali e riviste. Molti autori amati da Bellocchio sono anche tra i miei preferiti: Orwell, a esempio, ma anche Dickens, Hašek, Böll, Fenoglio, Danilo Montaldi (generoso scrittore-sociologo oggi quasi dimenticato dal discorso pubblico, cui è dedicato uno dei saggi più partecipi di tutto il libro), Geno Pampaloni, a mio parere molto più interessante e attuale dell’ancor oggi mitizzato Fortini…
Lucidissima e controcorrente la “difesa” di Bagatelle per un massacro di Céline, che quando apparve da Guanda, nella traduzione del poeta Giancarlo Pontiggia, suscitò per il suo antisemitismo un coro furibondo di proteste: da Filippini a Bogliolo, da Natalia Ginzburg a Moravia, per citarne solo alcuni, era tutto un dalli all’untore finché il libro venne ritirato tre mesi dopo l’uscita per volontà della vedova di Céline, Lucette Almansor.
Ma di questo testo “maledetto” Bellocchio scrive invece: ”Posso capire chi non è disposto a perdonare i peccati di Céline. Trovo invece disonesto che, per cavarsi d’impaccio, si faccia passare per brutto, mancato, scadente, vomitevole un libro di tale importanza artistica e culturale. (…) Bagatelle appartiene al maggior Céline, al Céline che conta. (…) il libro deriva la sua forza dalla capacità di denunciare mali ben altrimenti concreti e reali che non l’ebreo.” E commentando Mea culpa, un altro testo “maledetto”, soprattutto dalla sinistra, perché impietoso con l’involuzione dell’Unione Sovietica, Bellocchio scrive: “Céline con le sue unghie sporche continua a sembrarmi carico di verità anche quando è al suo peggio.”
Mi sono soffermato su questo capitolo “celiniano” perché mi sembra particolarmente rivelatore del Bellocchio critico letterario: estraneo ai luoghi comuni, attento all’umanità degli scrittori di cui si occupa, esegeta indipendente anche quando cita Lukács tra i suoi maestri (ma a me sembra molto più vicino a un Pampaloni), di rara onestà intellettuale. Questa onestà si esplicita nel lungo saggio, già ricordato, sull’epistolario di Pasolini, autore che in generale non mi sembra nelle sue corde. Eppure la lettura che Bellocchio fa del primo volume (quello più significativo, essendo il secondo soprattutto di lettere di lavoro e di umori prevedibili e ripetitivi) è straordinaria per sottigliezza e partecipazione, direi affetto.
Davanti a queste lettere “il lettore deve progressivamente arrendersi a un’evidenza del tutto imprevista. Deve cioè ammettere, ancora incredulo, e poi riconoscere con piena convinzione di trovarsi di fronte all’opera decisiva di e su Pasolini. L’opera che meglio lo comprende e lo consegna alle patrie lettere e alla storia italiana secondo la misura più giusta del suo significato e del suo valore.” E il volume tutto diventa “l’autobiografia involontaria dello scrittore forse più furiosamente autobiografico della letteratura italiana.”
Ho abbondato in citazioni anche per mostrare l’approccio di Bellocchio agli autori e ai testi di cui parla e lo stile con cui ne scrive: una specie di passione fredda, di lucida empatia. Vale per lui quanto scrisse Manganelli per Edmund Wilson (altro autore inserito nella raccolta): “Il piacere di capire è ancora più acuto del piacere di avere ragione.”. Bellocchio è coltissimo ma non appartiene a scuole, è impegnato ma non è ideologico, è di parte ma non fazioso: ha passione per l’umano e per questo entra nei libri (non sempre si tratta di romanzi) di cui scrive libero da pre-giudizi e pronto a cogliere (e partecipare al suo lettore) personaggi e autori immersi nel loro tempo, nei conflitti e nelle ambizioni sociali, nella povertà morale o nel sacrificio, nella violenza e nell’amore, nella lotta interiore tra la propria individualità che vuole realizzarsi e le forze che si oppongono. Piergiorgio Bellocchio ha fondato con Grazia Cherchi e diretto la rivista “Quaderni piacentini” (1962-1984), che fu per anni tra le riviste di riferimento di molta sinistra non ortodossa. Poi, col critico e saggista Alfonso Berardinelli, la rivista “Diario” (1985-1993). Da anni raccoglie foto varie di vita italiana, le incolla su ampi quaderni e le commenta a mano: un’editoria meno pigra della nostra ne avrebbe già pubblicato un’ampia scelta. È tra i personaggi dello spassosissimo romanzo di Paolo Colagrande, Fìdeg, edito da Alet, dove tra l’altro discetta sulla giusta ricetta dello stracotto d’asino.

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