Recensioni / Il pianeta sopravviverà, ora dobbiamo salvare gli esseri umani da loro stessi

Non sappiamo e non possiamo intendere, fino in fondo, quello che sta accadendo, perché, nel mondo euroamericano, stiamo attraversando la più pesante, inattesa, spiazzante crisi dal secondo dopoguerra: una crisi della salute pubblica, con conseguenze imprevedibili sull’economia, sulla politica, sulla società.

Chi può trovare qualcosa di paragonabile nella sua memoria d’infanzia, oggi, ha più di ottant’anni. La nostra incapacità di comprendere trova risconto nell’incapacità di descrivere gli eventi con parole appropriate, con un linguaggio idoneo. Ovunque trionfano le metafore, in prevalenza militari, quasi tutte fuori luogo.

Raccontiamo a noi stessi un tempo di guerra in tempo di pace, perché in tempo di pace contiamo i morti come in tempo di guerra e perché le nostre città sono soggette a paralisi, mentre siamo congelati da un generale coprifuoco, dove il silenzio viene spezzato, di tanto in tanto, dalle sirene di ambulanze in corsa.

Nella sua opera Occhiacci di legno. Dieci riflessioni sulla distanza, Carlo Ginzburg ricordava come “per guardare le cose dobbiamo prima di tutto guardarle come se non avessero alcun senso, come se fossero un indovinello”.

Occorrerebbe dimenticare le cose note, uscire da noi stessi, straniarci per leggere una situazione nuova, dalla durata e dalle conseguenze al momento non prevedibili. La linea preimpostata nella nostra memoria non unisce correttamente i puntini e sbaglia a tracciare il profilo.

Vale la pena provare a dimenticare, per concentrarci sulla forma dei singoli puntini. Anzitutto, oggi muoiono e possono morire migliaia di persone, velocemente, negli ospedali meglio attrezzati e dotati del mondo. Medici formati nei più grandi centri ospedalieri nordamericani, travolti dalla marea, contattano medici di regioni periferiche, dove l’onda è arrivata prima, per sapere come abbiano iniziato a curare i pazienti.

La scienza non sta bastando, il generale senso di onnipotenza che pervade l’uomo alle nostre latitudini è minato da qualcosa di invisibile, mutante, e in certi luoghi, per i suoi effetti inattesi, persino indecifrabile. La politica deve decidere misure all’altezza, ma in assenza di chiarezza scientifica e di precedenti comparabili. L’ultima epidemia che abbia avuto una portata simile è stata affrontata prima dell’avvento della società industriale e dei consumi di massa. La differenza tra la nostra epidemia e quella del 1918/20 non va ridotta, in questo senso, solo alla velocità con cui nella nostra società un virus è in grado di muoversi da un continente all’altro.

Occorrerebbe dimenticare le cose note, uscire da noi stessi, straniarci per leggere una situazione nuova
Il mondo delle relazioni economiche e sociali, fino al primo dopoguerra, era diverso e lontano dal mondo odierno. Gli anni Venti hanno avviato una rivoluzione nel mondo della produzione da cui ne è scaturita una nel mondo dei rapporti tra gli uomini: noi ne siamo l’esito ultimo. Quindi, la politica nel mondo euroamericano contemporaneo non ha mai fatto i conti con la necessità di bloccare la produzione industriale per ragioni estrinseche al circuito economico capitalistico.

Oggi, invece, un evento biologico costringe a posizionarsi in modo nuovo su un campo diviso tra due settori, a cui corrispondono due priorità distinte dalle quali emana acre il profumo della vecchia lotta di classe: la salute di chi lavora, il profitto di chi produce. Dove, però, occorre ricordare che la vita di chi lavora non è indipendente dal profitto di chi produce: le due cose si tengono insieme, quindi, occorre fare attenzione, qualunque cosa si faccia.

In tutto questo, le donne e gli uomini dei paesi più ricchi del mondo sono messi in quarantena e vivono come se fossero tutti condannati agli arresti domiciliari, nel tentativo di ridurre le dimensioni del lutto di massa che, come un fantasma, già s’aggira per il mondo euroamericano.

Distanza
Evitare i contatti per evitare i contagi, rimanere a distanza per salvare se stessi e la comunità. Quali sono gli effetti della distanza? Sono molteplici quelli che ricadono sui corpi. L’isolamento del corpo chiude le porte del nostro primo veicolo e motore, soffoca il luogo in cui si manifestano le nostre emozioni, atrofizza lo strumento che adoperiamo per incontrare, per accudire, per amare, per fare la pace con chi abbiamo intorno. Se ne rende conto di più chi si è isolato da solo.

La distanza ci può chiudere nei corpi, come in loculi dove ogni emozione risuona e rimbomba, dove la paura può diventare panico, dove l’ansia facilmente s’avvolge su se stessa, fino a mutare in angoscia e paralisi. E accade soprattutto se, alla distanza, si aggiunge il peso del controllo poliziesco subìto, che ci restituisce un’immagine di impotenza. Ciascuno sta trovando e cercando le sue strategie per saturare i suoi vuoti. Le connessioni informatiche sono diventate i canali privilegiati delle connessioni sociali e delle connessioni emotive.

Quanto possono resistere i corpi in queste condizioni? Nella maggior parte dei casi, soffrendo, molto a lungo
Tutto ciò ricorda un effetto indiretto della prima guerra mondiale: quel conflitto fu uno dei più potenti agenti di alfabetizzazione di massa, perché ogni contadino soldato analfabeta doveva scrivere ai suoi amori per sciogliere nella penna la sua dimensione emotiva; il distanziamento dei corpi in cui navighiamo ora ha invece insegnato a generazioni di docenti e di studenti programmi per fare pseudolezioni a distanza, ha riattivato account di social network dormienti, ha aumentato le ore trascorse nel mondo del web, che permette un contatto reale con le persone amiche o amate, pure in assenza di corpi e contagi. Quanto possono resistere i corpi in queste condizioni? Nella maggior parte dei casi, soffrendo, molto a lungo. Speriamo duri poco.

Animali
La nostra paralisi sta svuotando le città dagli esseri umani. Le strade che percorriamo massicciamente si sono di colpo desertificate e, soprattutto nelle zone periferiche, vanno assumendo i caratteri dei canali biologici di norma percorsi dagli animali, anche all’interno dei luoghi abitati. E gli animali se ne stanno appropriando, pure loro spaesati dall’assenza di quell’esercito di bipedi sempre brulicanti sopra la crosta tecnologica con la quale divorano di anno in anno il pianeta, senza assumersi la responsabilità del danno procurato.

Insomma: nel momento in cui, da settant’anni a questa parte, siamo più vulnerabili e in ritiro dal mondo, la natura si espande, mandando i delfini nei porti, gli aironi e le lepri in città, le volpi e i tassi a spadroneggiare sulle piste ciclabili delle nostre vallate.

Ci sono due messaggi dedicati al rapporto tra uomo e natura che questa storia pare aver posto in una bottiglia gettata al largo. Il primo è che l’uomo non è un’entità onnipotente: non può tutto sulla natura e sull’ambiente che gli sta intorno, perché la natura di cui è parte sa metterlo in ginocchio. Il secondo è che, forse, dovremmo abbandonare le retoriche sul pianeta da salvare: la vera sfida non è salvare il pianeta, ma salvare noi stessi da noi stessi, dentro il pianeta.

Il pianeta, pare, se la caverebbe – e se la caverà – brillantemente senza di noi. C’è da augurarsi che questi due messaggi, alla fine della tragedia in corso, vengano raccolti e compresi.