Benché controvoglia e
avendo ritardato per anni (si considera fuorigioco da tempo), Piergiorgio
Bellocchio ha ora pubblicato il libro che ne rivela
di più le capacità di lettore: Un seme di
umanità. Note di letteratura. È infatti
più come lettore non specializzato
che come critico letterario in senso
stretto che ha scritto questi saggi, per
lo più recensioni, prefazioni e contributi occasionali a opere generali. La
forma che preferisce è quella breve e
sintetica. Gli è sempre piaciuto il fatto
che Edmund Wilson, il critico da cui
ha imparato di più, amasse definirsi
semplicemente «un giornalista».
Noto per i suoi articoli di costume
culturale e sociale, aforismi, aneddoti, glosse polemiche e satiriche con
cui soprattutto nella sua rivista «Diario» (1985 -1993) ha illustrato come
nessun altro i "postmoderni" decenni finali del Novecento, Bellocchio
non aveva mai raccolto in volume i
suoi scritti sulla narrativa. Ma in
quanto strumento privilegiato di
analisi dei rapporti fra individuo e
società, la narrativa è sempre stata al
centro dei suoi interessi. Che si tratti
di capolavori del romanzo moderno,
di autobiografie, di epistolario anche
di film, in Bellocchio colpisce soprattutto una passione di interprete del
tutto personale e velatamente autobiografica. Narratore mancato per
eccesso di autocoscienza critica e forse per impazienza, quando si tratta di
interpretare un testo sente anzitutto
il bisogno di raccontarlo di nuovo in
breve. Le sintesi riassuntive sono tra
le sue pagine letterariamente pìù
brillanti. I saggi dedicati alle memorie di Casanova, a Stendhal, a Dickens, a Flaubert, al Soldato Svejk, a T.
E. Lawrence, Céline, Orwell, Penoglio, Bianciardi, Danilo Montaldi, sono ritratti morali e politici degli autori non meno che analisi dei loro libri.
Dietro ogni narrazione Bellocchio
vede un individuo di fronte a una società in una particolare situazione
storica: la restaurazione postnapoleonica in Stendhal, la morale dell'età
vittoriana in Dickens, il trionfo della
borghesia in Flaubert, regime zarista
e populismo rivoluzionario nei russi
da Puskin a Cechov, il boom economico e gli emarginati in Bianciardi e
Montaldi. Il volume si conclude con
una esemplare e memorabile lettura
del Barry Lyndon di Kubrick, film che
molta sinistra non capì, scambiando
la sua metodica e spietata analisi sociale per un esercizio di calligrafismo
neoclassico.
Un seme di umanità è fin dal titolo
(ricavato da una frase di Max
Horkheimer) un libro sia attuale che
inattuale. Un libro contro la cultura
come impostura ideologica, maschera del privilegio o snobismo piccolo-borghese. La narrativa, almeno
la migliore e più tradizionale, è invece sempre smascheramento, "aspra
verità", schiettezza e disinganno. Dire "un seme di umanità", usare il termine di umanità per indicare un valore tanto esibito quanto dimenticato, è una provocazione e una dichiarazione d'amore, non per un futuro,
ma per un passato migliore.
Contro il conformismo dei generi
letterari usati come garanzia preliminare e moneta di scambio, Bellocchio
mostra una speciale preferenza per i
libri non intenzionali che nascono più
per necessità quotidiana che per realizzare progetti ambiziosi. Dice tutto,
in proposito, il saggio dedicato all'epistolario di Pasolini, considerato
non solo la sua «autobiografia involontaria» ma perfino la sua maggiore
opera letteraria, «l'opera che meglio
lo comprende e lo consegna alle patrie
lettere e alla storia italiana».
Quanto a umanità, è evidente la
simpatia con cui Bellocchio si dedica
per esempio a narratori come Dickens
e Boll, spesso denigrati dalla critica
per il loro "sentimentalismo" sociale.
Né l'uno né l'altro erano degli intellettuali e per questo agli intellettuali
piacciono poco. Ma Dickens influenzò
Dostoevskij e fu apprezzato e difeso
da due grandi critici come Edmund
Wilson e George Orwell per la sua
istintiva avversione nei confronti delle «inflessibili» leggi economiche e
morali della società borghese. Boll a
suavolta, nel più riuscito e più politico
dei suoi romanzi, Foto di gruppo con
signora, con l'attenzione alla «corporalità» e a un certo «nichilismo individualistico» di alcuni suoi personaggi
esprime un «elogio dell'irregolarità»
e un naturale «disprezzo di ogni regola economica». Del resto tutti questi
saggi di Bellocchio sono abitati da
personaggi reali o immaginari che
danno il meglio di sé nei loro fallimenti, nella loro incorreggibile incapacità di accettare e usare a proprio
vantaggio le regole del gioco sociale.
Se esistono ancora lettori interessati a un libro di saggi letterari non
accademici, ne troveranno un raro
esempio in Un seme di umanità. Qui la
critica letteraria, secondo la sua migliore tradizione, dimostra di essere
un ramo, probabilmente il più robusto, della filosofia morale. Si è visto
come scienziati sociali e filosofi che
non hanno imparato dalla narrativa
abbiano finito per accelerare quella
"disumanizzazione" progressiva e
specialistica del sapere che è stata uno
dei fenomeni storici più caratteristici
dell'ultimo secolo e che ha svuotato di
contenuto e di significato gli stessi
"studi umanistici".
Siamo così abituati a una critica
letteraria come produzione universitaria che ormai distinguere fra critici
accademici e critici militanti, fra studiosi e critici, suona scandaloso. Eppure in pieno Novecento la differenza è stata chiara, come dimostra il
fatto che anche Walter Benjamin e
Giacomo Debenedetti vennero giudicati non sufficientemente degni di un
titolo di professore. Se questo oggi
non accade più, è solo perché la stessa cultura universitaria si è trasformata in una variante gergale della
cultura di massa.