A quasi novant'anni dice che può
permettersi il lusso di chiamarsi
vecchio. «Non sono un anziano, sai
quelle figure ben temperate e
pompate dalla pubblicità. Fornite di
dentiere scintillanti, di sorrisi
smaglianti e abbronzature perfette.
Tinti a puntino. Che vanno nei parchi a cercare l'elisir
dell'immortalità. No, io sono fuori da tutto, pur restando
dentro casa, con mia moglie Marisa, barricato nel tempo
del contagio. Che faccio? Quello che fa un vecchio: vado
spesso in bagno, dormo male la notte, spio dalla finestra il
vuoto della mia città, Piacenza». E Piacenza è una delle
zone più martoriate dal coronavirus. Avevo incontrato
Piergiorgio Bellocchio poco prima che accadesse tutto
questo. Quasi in un'altra era. Ero stato a trovarlo dopo
aver letto Un seme di umanità, un bel libro, edito da
Quodlibet e fortemente voluto da Gianni D'Amo, che
parla di letture di classici (ma non solo), di predilezioni e
idiosincrasie. Ora ci sentiamo per telefono. Gli chiedo
come sta nella condizione del recluso. È perplesso, un po'
smarrito. Dice che è come durante la guerra. Ma senza le
bombe né il rumore degli automezzi tedeschi. La paura è
ovattata. Ti avvolge nel silenzio delle città, e nella
circospezione dei pochi che si avventurano fuori: «Ti
confesso che sono senza parole».
Ci manca il linguaggio per descrivere tutto questo?
«L'Occidente ci ha abituati a riconoscere i sintomi di una
malattia e a reagire a livello individuale. Ma tutto quello
che sta accadendo a livello collettivo lo ignoravamo. Va
oltre la nostra immaginazione. Con che lingua possiamo
raccontare questo "noi" disperato nel quale presto
potrebbe crescere la rabbia? Questo noi che credevamo al
riparo dalle sciagure, dalle guerre e dunque dalle
pandemie. Non ti sto facendo un discorso medico che
non mi compete, ma antropologico: saremo ancora noi
tra un anno o due? Sarà ancora Piacenza la città che ho
conosciuto, amato, detestato?».
Ci sei anche nato?
«Ci sono nato e vissuto. su questo crocevia che confina
con più regioni. Siamo la provincia più a destra
dell'Emilia. Perché la base sociale era più agricola che
industriale. Mentalità conservatrice, sospettosa nei
riguardi del nuovo».
Tu come reagivi?
«Era come se la cosa non mi riguardasse. Allora, parlo dei
miei anni giovanili, ero una specie di vitellone. Mi piaceva
leggere ma non studiare. Ero iscritto a Legge ma speravo
di fare il giornalista. Erano i sogni o forse le pretese o forse
i privilegi di un provinciale».
Pensi di averli realizzati?
«Certo che no. Negli anni Cinquanta si stava su un crinale
piuttosto confuso. Poi arrivò il 1960, che io considero
l'anno decisivo della nostra storia. Il Paese si modernizzò.
La coscienza politica crebbe dopo i fatti di Genova e io
cessai di essere il vitellone».
Realizzasti la cosa più bella che potevi immaginare:
«Quaderni Piacentini». Come ti venne in mente?
«Potrei dirti che era nell'aria. La verità è che nel 1961 uscì a
Torino la rivista «Quaderni Rossi» di Raniero Panzieri.
Mettevano al centro i temi della fabbrica. Noi pensammo
di spostare il focus sulla società e l'individuo. Così nel
1962 varammo la nostra rivista. Evitammo il conformismo
del nostro tempo, ci piazzammo distanti dalle sirene
ideologiche del Pci. Un po' come aveva fatto «II Politecnico».
Quando uscì la rivista di Vittorini, ebbi un'impressione
straordinaria, credo dovuta alla sua totale assenza di
rigore ideologico».
Ti attrae il pensiero disordinato?
«Mi attrae tutto quello che non è prevedibile o scontato.
Vale nella vita e nelle idee, come pure vale per i libri, che
fanno parte sia della vita che delle idee.
Sui «Quaderni Piacentini» tu firmavi una rubrica: i libri
da non leggere.
«È vero, ma mi pentii quasi subito».
Perché? In fondo la provocazione ci stava.
«Lo capisco, anche perché la nostra società letteraria
raramente stronca. Ma quella rubrica, firmata non solo da
me, si rivelò troppo casuale e cosparsa da errori di
valutazione clamorosi. Un abbaglio colossale fu di
inserire tra i libri da non leggere Lolita di Nabokov».
Impiccaste anche La vita agra di Bianciardi.
«Fu un altro infortunio. Ma forse in quel caso ci infastidiva
l'alone vagamente maudit del bar Giamaica, con le sue
innocue provocazioni artistiche».
Era un porto di mare.
«Con pochi vascelli arrembanti e molte placide
barchette».
Non ti incuriosiscono i luoghi che diventano
leggenda?
«No, anche perché la trasfigurazione immaginaria di certi
posti, come insegna Borges, è una disciplina per pochi
eletti».
Anche «Quaderni Piacentini» si è rivestita di un alone
leggendario.
«Abbiamo avuto fortuna. La rivista partì con duemila
copie e arrivò nel Sessantotto a venderne dodicimila. Tu
dici leggenda. La verità è che a un certo punto mi stancai
di farla. Pensai che avesse esaurito il suo compito. Fu solo
grazie all'ostinazione e al sacrificio di Grazia Cherchi che
la rivista continuò. Fosse stato per me, l'avrei chiusa negli
anni Settanta».
Le cose finiscono.
«Bisogna rallegrarsene, pensa che noia proseguire a
oltranza. Anche se ti confesso che quando con Alfonso
Berardinelli facemmo «Diario» fu lui a voler smettere e io,
sotto sotto, avrei continuato. Buffo, no?».
Neanche tanto, in fondo dai di te l'immagine di uno
molto libero.
«Ho sempre pensato che la libertà sia più un fatto
esistenziale che morale».
Ti senti libero ora?
«Che intendi?».
Sei recluso in casa, come fossi agli arresti domiciliari.
«È una situazione sconosciuta. Non ho esigenze
particolari, sono vecchio, dovrei sentirmi protetto in casa
E invece mi sembra pazzesco».
Immagino che dedicherai molto tempo alla lettura.
«Più che leggere, rileggo».
Non ti piacciono le novità?
«È raro trovarne di soddisfacenti. Se guardo ai libri italiani
mi spavento».
Perché?
«Uno scrittore italiano oggi a chi parlerebbe?».
Che cosa impedisce una parola alta, convincente e
condivisa, magari poetica?
«Non lo so. Mi fai venire in mente Montale quando disse,
un po' provocatoriamente, può mai esistere un grande
poeta bulgaro?».
Perché no?
«Ma sì, può esistere se c'è stato un grande scrittore come
Canetti. Ma non è questo il punto. Una letteratura si deve
nutrire delle trasformazioni sociali. Non rispecchiarle.
Almeno non necessariamente. Ma respirarle sì. Avresti
avuto il primo rinascimento americano, quello che
precede la Guerra civile, con i suoi Thoreau, Hawthorne,
Whitman, Melville e magari Poe - senza il risveglio del
gigante?».
Leggi ancora Melville?
«No, mi piacerebbe riprendere in mano Bartleby o Benito
Cereno. Mi spaventerebbe affrontare nuovamente Moby
Dick».
Perché ti spaventerebbe?
«C'è un'ossessione incoercibile che non so se riuscirei a
sopportare. Preferisco dilettarmi con Flaubert o magari
Dostoevskij».
Alternativa secca?
«Sono diversi, non c'è dubbio. C'è in Flaubert un lato
visionario e una satira vendicativa che non trovo in
Dostoevskij».
Vendicarsi di cosa?
«Dell'ordine morale dei vari Homais. Flaubert è convinto
che il disordine morale di Emma Bovary sia decisamente
superiore alle ipocrisie e alle mediocrità dell'epoca. Che
egli rappresenta nell'orrendo microcosmo di Yonville».
I sogni di Emma la sollevano dalla grettezza del luogo
in cui vive.
«Ma sono sogni velleitari i suoi, come del resto lo sono
quelli di Bouvard e Pécuchet».
Si somigliano?
«In un certo senso sì. Cambia l'oggetto del sogno non il
motore che fa sognare. Emma desidera l'amore, la
ricchezza, il prestigio sociale, il successo, l'arte. Mentre
Bouvard e Pécuchet aspirano alla scienza e alla verità.
Tutti i loro esperimenti falliscono, qualunque loro
impresa - dal giardinaggio all'agricoltura, dalla lettura
del pensiero all'astrologia, dalla pratica medica alla
rabdomanzia - naufraga miseramente. Sono dei falliti di
talento. Eroi del no. Torneranno a fare i copisti. Gli umili
scrivani, come Bartleby».
Sono anche due meravigliosi cretini.
«Sono le vittime del progresso. E come Emma anche loro
avranno tutti contro: il prete, il nobilotto, il notaio, il
sindaco, i bottegai. La loro diversità è irriducibile
all'ipocrisia, al conformismo, al profitto. Se ne infischiano
degli affari».
In Dostoevskij invece cosa trovi?
«Parliamo di letteratura russa dove mancano quasi del
tutto i romanzi di intrattenimento, quelle letture amene
ricche di convenzioni. Lo scrittore russo tende a
coincidere con la figura dell'educatore; si erge a
coscienza morale e, nei casi estremi, a predicatore o
agitatore. Dostoevskij rientra in questa casistica: il
pensiero è la sostanza della sua opera».
È uno scrittore per incalliti intellettuali.
«I suoi personaggi principali sono intellettuali più o meno
disincantati. Mi piace di più nella descrizione dei
personaggi minori. La leggenda del Grande Inquisitore,
che è il momento più alto dei Fratelli Karamazov, non mi
ha mai coinvolto».
Ho visto nelle tue note di lettura un grande
apprezzamento per Dickens.
«Nonostante certi suoi eccessi patetici, è di gran lunga il
più grande scrittore inglese del suo tempo. E poi una
certa componente sadica lo riscatta dal moralismo.
Dostoevskij subì l'influenza di Dickens, almeno per certe
descrizioni dei mutamenti sociali. Ma quest'ultimo non fu
mai un intellettuale. Il suo genio era tutto istintivo».
Hai una predilezione per macchine narrative semplici?
«Mi piacciono le descrizioni che anticipano o
rappresentano un'epoca, la scuotono come un albero con
i suoi frutti. Per questo non sono mai riuscito a riprendere
in mano L'uomo senza qualità, nonostante le
sollecitazioni del mio amico Cesare Cases».
Degli scrittori di lingua tedesca chi ami?
«Su tutti Thomas Mann. Lo preferisco a Kafka, il quale
resta uno straordinario scrittore di racconti e di parabole.
La Tana è un capolavoro. Ma i romanzi faccio fatica a
rileggerli. Mann è un narratore, Kafka è un geniale
rabbino».
Hai un metodo per leggere?
«No, tranne quello di usare la matita prendendo appunti.
Ma ci sono pagine delle quali non comprendo più cosa ho
sottolineato. Tutto dipende dall'età in cui si è letto un
certo libro. Ti faccio un esempio. Oggi non ce la farei più a
leggere Adorno. Negli anni Cinquanta era il mio
nutrimento. Perfino Minima moralia tradotto dal mio
amico Renato Solini mi lascia indifferente. Ma poi sai qual
è la verità?».
Dimmi.
«Che di Adorno io avrò capito sì e no un venti per cento.
Non so se al liceo lo avrei eletto a mio maestro».
Quale è stato il tuo primo libro o romanzo?
«Pinocchio, di cui conservo un giudizio
straordinariamente alto: esibisce la ribellione alle regole,
elogia la disubbidienza, ci dice che si può essere bugiardi
per necessità o per difesa e racconta un'Italietta
miserabile. Vi sono paesi dove si può mangiare senza il
pericolo di essere mangiati? La battuta di Pinocchio
mostra le sciagure che incombono su di noi. Ora che sono
vecchio vorrei tornare a qualche libro dell'infanzia».
Parlavamo della tua segregazione.
«La subisco con rassegnazione. Uno dei problemi della
vecchiaia è che non ti appassioni più a niente. In me
prevale il tedio. Da anni, ti confesso, non mi diverto più».
Stiamo cambiando stile di vita.
«È vero, ma più per necessità che per convinzione. Oggi
tutti pensano a proteggere la salute e spero che alla fine
se ne esca bene. Ma temo la batosta economica. Già
eravamo messi male. Cosa ci accadrà? La nostra classe
politica, al netto di questa situazione, ha contribuito a far
degenerare questo mondo. I nomi di coloro che ci
guidano o stanno all'opposizione non mi dicono nulla. Mi
sembra di vivere in un Paese sconosciuto».