Recensioni / Al settimo cielo – La leggerezza ne Il levitatore di Adrián N. Bravi

Che sia possibile scrivere con ambizioni di tipo letterario in una lingua che non è la propria, ce lo dimostra l’immenso numero di autori che si servirono del latino quando il latino non era più la lingua madre di nessuno – così come ce lo dimostrano casi simili già più vicini al nostro presente; cito i primi che mi vengono in mente: ancora per il latino Giovanni Pascoli, per il francese Samuel Beckett, per l’italiano Rodolfo Wilcock e, circostanza al limite, Alessandro Manzoni, se consideriamo che Manzoni era milanese, non fiorentino, e che a suo tempo nella Penisola non esistevano né una nazione unificata né un idioma comune. A questi e ad altri nomi si aggiunge quello di Adrián N. Bravi, argentino trasmigrato in Italia, nella cui scrittura convivono insieme la nostra lingua e l’immaginario tipico della narrativa “rioplatense”, come lui usa definirla.

Il risultato dell’incontro, e non sono io l’unica a crederlo, è una voce gradevolissima e al contempo singolare all’interno dell’odierno panorama letterario italiano. «La letteratura rioplatense ci ha fatto capire che un fatto banale e quotidiano poteva trasformarsi nel preambolo dell’irruzione di un mondo fantastico» ha dichiarato lo scrittore in una recente intervista pubblicata sul blog Altri Animali a proposito del suo ultimo romanzo, Il levitatore, un volumetto agilissimo di appena duecento pagine che, è proprio il caso di dirlo, ho avuto il piacere di leggere in poco più di un pomeriggio.

Di fatti è con un avvenimento banale (un incidente domestico) che la storia di questo libro inizia, per poi svilupparsi attraverso una sfilza di circostanze sicuramente più stravaganti: Anteo Aldobrandi ha iniziato a levitare a quattordici anni, quando suo padre si è tagliato un indice con la motosega e lui ha fatto imbalsamare e racchiudere il dito all’interno di un minuscolo sarcofago. A quarant’anni Anteo, disoccupato, ormai esperto levitatore, e innamorato della cagna la cui compagnia lui e la sua ex moglie si spartiscono secondo turni settimanali, è costretto a tornare con i piedi per terra quando quest’ultima, senza motivi fondati, lo denuncia per stalking, trascinandolo in una catena di complicazioni legali dal sapore kafkiano, a causa delle quali Anteo non riuscirà più a levitare. Già da una sinossi di questo tipo appare indubbio che ad avere pieno campo in un simile romanzo sia la leggerezza, tanto in senso narrativo quanto letterario e stilistico.

Una leggerezza che porta con sé simpatia e ironia, e che al tempo stesso richiede al lettore una buona dose di sospensione dell’incredulità. Tuttavia l’assurdo o, mi si perdoni la forzatura, il “realismo magico” di Bravi non sfocia mai nello spettacolare, in episodi che il già nominato Manzoni definirebbe romanzeschi anche per un testo che al surreale vuole lasciare la sua parte. Al contrario Bravi, come Anteo e come qualsiasi scrittore padrone dei propri strumenti, preferisce volare basso. L’esercizio stesso della scrittura, in fondo, per come Bravi definisce la levitazione, è assimilabile all’arte praticata da Anteo – entrambe trovano nella solitudine il proprio tempio, entrambe fondano le proprie basi sul riordino delle idee.

E come Anteo non ama dare pubblico sfoggio delle sue abilità, allo stesso modo Bravi adegua la scrittura a un tono colloquiale, ai ritmi fluidi di una conversazione privata, tra amici, e così corteggiando il lettore, avvicinandolo alla sua storia grazie alle confidenze della prima persona, se ne ingrazia l’attenzione per tutta la durata del romanzo: lungo la traccia di un trama di per sé non particolarmente arzigogolata, le cose, più che succedere, sembrano farsi succedere, e il lettore si abbandona senza rimorsi a quel fiume che sono le parole del romanzo, le quali trascinano via con sé tutto, rimediando anche ai piccoli “detriti” del libro.

Bisogna ammettere, infatti, che questa trama così semplice, con l’intento di rendere ancora più surreale la spirale di assurdità giuridiche in cui Anteo viene coinvolto, produce talvolta percorsi ripetitivi, e il modo diretto che ha Anteo di interrogarsi, con domande e riflessioni esplicite, si riduce spesso a passaggi ridondanti. C’è da dire però che l’essere logorroico, e lo scegliere percorsi fissi nel discorso fanno parte del tratto caratteristico di Anteo, la leggerezza, e che quindi la ridondanza potrebbe invece essere imputabile alla capacità mimetica di Bravi. Questo e altri indizi della bizzarria del personaggio, riflessa nelle reazioni di chi gli sta intorno, sono abilmente disseminati da Bravi in vari luoghi del romanzo, e rendono quasi impossibile non dubitare dell’affidabilità di Anteo come voce narrante – dubbio che credo essere il vero motore della storia.

In realtà Anteo è un personaggio totalmente positivo, proprio perché senza complessi. Vive sereno sull’eredità dei genitori; ha affrontato in tranquillità la loro morte e la separazione dalla moglie. Quella che nella sua adolescenza sarebbe dovuta essere l’uccisione del padre freudiana o l’evirazione dei miti classici, è stata per lui il taglio di un indice, quell’indice che porta sempre con sé nella tasca dei pantaloni: Anteo non si è mai sbarazzato dei genitori, che ritornano nelle cassapanche della casa, lasciate intonse anche dopo la loro morte, che ritornano, come presenze evocate, nei vaneggiamenti dello zio Rocco, vittima della demenza senile. Meglio: Anteo è sempre rimasto un bambino; questo il motivo della sua leggerezza, del suo essere un personaggio positivo.

Peccato per il finale del libro, che, date le premesse, risulta un po’ monco – gli ingredienti di partenza non vengono tutti risolti entro il termine della storia. Tuttavia, non si tratta di una critica. Lo sarebbe se io fossi convinta di aver capito davvero il libro di Bravi. Ma non lo sono. Non perché Il levitatore sia un romanzo complesso, anzi, tutto il contrario. Non so però se Il levitatore sia un romanzo che voglia essere capito. A sostegno di una simile ipotesi, si può apportare il fatto che tanti elementi della storia non trovano una risposta ai loro perché: perché la ex di Anteo si accanisca su di lui, perché Anteo abbia iniziato a levitare in coincidenza con il taglio del dito, perché abbia smesso in coincidenza con l’insorgere dei problemi legali.

Sono solo alcuni dei diversi interrogativi che per un attimo aleggiano sul testo per poi volare via all’ombra di un sottotesto assente, un accumulo di domande la cui unica funzione è di essere ignorate. Forse consiste proprio in questo il senso del libro: non appena Anteo comincia a porsi domande su casualità alle quali prima non aveva mai dato importanza, ecco che smette di levitare, di essere leggero, ecco che i problemi lo costringono a terra. A differenza del gigante omonimo del protagonista, non bisogna rimanere con i piedi per terra, bisogna essere leggeri, come bambini – questa la lezione di Bravi.

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