Recensioni / Dialoghi. Serena Carbone in conversazione con Marco Scotini.

Il volume Utopian Display. Geopolitiche curatoriali (Quodlibet, 2019) a cura di Marco Scotini è l'ultimo tassello di un progetto di ricerca ben più ampio che ha inizio nel 2003 alla NABA di Milano con “The Utopian Display Platform”, prima occasione di dibattito curatoriale in Italia. La piattaforma, attiva fino al 2007, ha ospitato annualmente curatori di calibro internazionale come Catherine David, Carlos Basualdo, Daniel Birnbaum, Hans Ulrich Obrist, Maria Lind e tanti altri. Interrotto per quasi dieci anni, il programma di incontri è ripreso nel 2017 con il convegno “The Utopian Display: Props & Tools” a FM Centro per l'arte Contemporanea. Del libro come di tanto altro, inclusa una dovuta riflessione su quello che sta accadendo in questi giorni, ne parliamo con Marco Scotini, critico e curatore, nonché direttore artistico di FM Centro per l’arte contemporanea e Arti Visive Department Head di NABA a Milano.

Serena Carbone: Era un'intervista programmata da tempo per parlare dell'ultimo libro da te curato, “Utopian Display. Geopolitiche curatoriali”, cosa che ovviamente faremo, ma visto il momento non posso non iniziare con il chiederti un'opinione su quanto stiamo vivendo: i musei, le gallerie, le accademie sono chiuse, le mostre sono sospese, tutta l'attività di programmazione culturale è saltata. Cosa ci aspetta?
Marco Scotini: Il disastro che stiamo vivendo è, per me, nuovo nella sua forma, ma niente affatto nella sostanza. Addirittura credo che si tratti di uno sviluppo accelerato di quanto era già stato programmato ma, da anni, in riserva: senza possibilità di essere pienamente applicato. Non abbiamo a che fare con un'inversione di tendenza, con l'arresto imprevisto e drammatico di un sistema ma, al contrario, con il suo dispiegamento totalitario. La diffusione irresponsabile del virus ha a che fare con le politiche neoliberiste della globalizzazione; la sua comunicazione inascoltata è la prova dell'inefficacia delle nostre politiche dell’attenzione sopraffatte dall’ipertrofia della circolazione digitale che, non solo impedisce di discernere il vero dal falso, ma rende impossibile qualsiasi forma di azione politica o presa di posizione; il distanziamento sociale attuale non è altro che l’effetto pacificato dei dispositivi di governamentalità a distanza che sperimentiamo quotidianamente, e da anni, nell’esercizio ordinario del nostro lavoro. Chi più conosce che cosa? Eppure la macchina è perfetta, gli algoritmi insostituibili nel far funzionare l’efficienza dell’impresa! Per quanto tempo siamo stati felici di dirci reciprocamente: “ci vediamo su skype?” oppure “aspetta che entro in una conference call”, con l’entusiasmo dell’avventura! Abbiamo fisicizzato il più possibile questo spazio presunto innocuo e senza peso - e ora non ne dovremmo essere ancora più felici?

S.C. Felici nel lavorare da casa, felici nel famigerato smart working...
M.S. Se c’è una parola che vorrei abolire dal linguaggio internazionale è l’attributo inglese “smart” per quanto mi appare criminale… la smart city è un carcere perfetto, lo smartphone ci rende stupidamente compulsivi e, dello smart working, è meglio non parlare. Quello che mi ha veramente provato in questa esperienza è stato, di fatto, come il dramma sanitario sia stato l'occasione di un profluvio di inarrestabili retoriche sul potere dell'intelligenza artificiale, sull'impossibilità di frenare, di concepire un limite che, come tale, ci avrebbe permesso, solo e finalmente, di trovare il tempo per pensare (d’altra parte il mio grande amico Bert Theis diceva sempre che oggi è “too hard to be lazy!”).

S.C. Pensare a cosa?
M.S. Che ad essere infettato è stato ancora un corpo, che il confinamento a cui siamo richiamati è fisico, che il lavoratore autonomo è l'inganno più criminale che il neoliberismo abbia prodotto, ecc. ecc. Ma ormai non è il corpo il luogo di una separazione irricomponibile (tra fitness, fashion e macchina)? Non è stata la vita ad essere l’oggetto più incriminato? Non siamo ormai gli adepti della nuda vita? Perché vedere in faccia la morte allora ci fa paura? Eppure in questo mese e mezzo i clown sono stati tanti (troppi) a scendere in campo con il proprio instagram account, a rivendicare ancora una volta le condotte manageriali del soggetto autonomo via streaming, a produrre un presenzialismo digitale offensivo, a trovare stupide alternative (at-home-museum, online viewing rooms, masturbazioni filosofiche digitali) quando il tacere o il mettere un freno sarebbero stati i soli modi salutari. Sì la macchina mi pare impazzita (anche quella dell’arte contemporanea) e integralmente funzionale al peggio che già ci aspetta dietro l’angolo: nell’immediato futuro pauperistico e neofeudale. Credo che tutte le critiche che avevo mosse al sistema neoliberale dell’arte nel libro “Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici” siano oggi, alla luce di quanto sta accadendo, ancora più valide di qualche anno fa.

S.C. Anche il libro Utopian Display. Geopolitiche curatoriali, è incentrato su una visione globale dell'arte contemporanea all'interno di un sistema neoliberale, ma invece di evidenziarne le problematicità, ne mette in risalto la possibilità dell'eccezione; al centro della riflessione, infatti, vi sono le pratiche artistiche che hanno fatto del display il proprio oggetto di ricerca e produzione, mettendo in discussione, problematizzando e innovando le condizioni stesse dell’esposizione. Facendo un passo indietro, in quest'ottica, cosa si intende oggi per display?
M.S. Per non abbandonare quanto detto prima, visto che il libro Geopolitiche curatoriali interviene appunto sulla nostra attuale condizione a scala globale, semplificherei dicendo che l’asimmetria tra mostrare e controllare è al centro di quello che possiamo definire display. L'esponibilità di uomini e cose, intesa come condizione della loro apparizione o della loro messa in scena, oggi ha un valore paradigmatico. Abbiamo visto in questo momento di blackout quanti “giocolieri e ballerini” sono comparsi alla ribalta, senza nessun altro motivo. L'esponibilità è, di fatto, una delle categorie più alte nelle gerarchie di valorizzazione. Più importante dell'assunto dell'esistenza di una cosa (di cui oggi sono crollate le quotazioni come per Benjamin, negli anni Venti, lo erano quelle dell'esperienza) è, per tale categoria, il fatto che la cosa cessi di svolgere ogni altra funzione che non sia quella di essere oggetto di un campo di visibilità o, più precisamente, d'essere vista. Il rapporto tra macchine espositive (laptop, iPad, tablet o cornici non importa) e governo sui pubblici è qualcosa che va ben oltre mostre, musei, biennali. Ecco che allora partire da questi ultimi può aiutare a comprendere la nostra condizione più generale. In un'economia neoliberista della comunicazione, l'esposizione come tale (in tutte le sue forme) è dunque un dispositivo simultaneamente di valorizzazione, di produzione e controllo poliziesco delle condotte. Anzi, direi che (oggi più che mai) è uno strumento di espropriazione dell'innovazione sociale, dell'anarchia sperimentale, di ogni tipo di alternativa che il display re-integra alla logica del capitale. Dunque rimane fondamentalmente utopico il fatto di concepire tale dispositivo come una promessa di emancipazione e sperimentazione perché, di fatto, è l'esatto opposto. A patto di disarmarne o profanarne le configurazioni attraverso contro-dispositivi che dovranno essere portatori di istanze politico-sociali (non solo estetiche) impreviste e tali da rendere visibile e mettere in discussione l’apparato, decolonizzare narrative, minare i canoni espositivi. Il libro Geopolitiche curatoriali offre tutta una serie di alternative istituzionali e dà una prospettiva policentrica, che rifiuta il discorso egemonico euro-americano.

S.C. La stretta vicinanza tra display e governo dei pubblici di cui parli, mi fa venire in mente una pagina del libro, in cui si dice esplicitamente che per modificare l'identità di un museo bisogna modificare l'identità dell'istituzione, dove per istituzione s’intende ciò che si istituisce sulla consuetudine e diviene strutturalmente definito. Come il mondo dell'arte potrebbe iniziare a cambiare la grigia e arrugginita istituzione italiana? Hai degli esempi di buone pratiche internazionali e nazionali di cui parlarmi?
M.S. Mi pare che tutto Geopolitiche curatoriali porti esempi in proposito, dal ‘museo auto-espropriato’ di Franke al ‘museo travestito’ di Lopez, dall’esposizione internazionale per la Palestina di cui parla Rasha Salti alla mostra Public Library di cui trattano le WHW. Ma anche nella storia dell’arte italiana si incontrano differenti esempi che magari andrebbero raccolti: sia storici come il Museo Progressivo del 1974, sia contemporanei come Isola Art Center.

S.C. «La distanza dal potere è la precondizione dell'autoriflessione, ed è col rivelare le sue operazioni di potere che il museo può forse diventare davvero “pienamente alfabetizzato”», scrive Anselm Franke nel suo contributo al libro, dal titolo “Musei auto-espropriati”; ma se arte e potere costituiscono un connubio secolare, perché proprio oggi dovremmo ricercare e affermare la distanza delle due sfere?
M.S. Non credo che il rapporto arte-potere sia assimilabile a un vincolo secolare. Questo significa naturalizzare un rapporto che, altrimenti, è storico. Significa anche negare il potenziale di immaginazione, di innovazione, di rivendicazione e di resistenza che l’atto di creazione è in sé. Anselm Franke parte da un esempio che è tutt’altro che maggioritario e mainstream: il nuovo Museo delle Donne in Zambia e riflette allora sul museo (non solo di arte) come dispositivo che decide la distribuzione del possibile e dell’impossibile; dunque prova ad immaginarlo diversamente come dispositivo di cambiamento, a partire da una messa in luce di ciò che finora ha confiscato, espropriato, colonizzato, a partire dal suo retaggio positivista borghese. Se mai il limite della mostra “autoriflessiva”, come la chiama Franke, è quello di apparire scollegata da una più ampia macchina politico-sociale antagonista, senza la quale non avrebbe alcun senso.

S.C. Foster nel suo libro “Il ritorno del reale” parla di una continuità in termini di “azione differita” tra l'avanguardia storica e la neoavanguardia, sostenendo che mentre la prima aveva «messo tra parentesi» l'oggetto/referente, decontestualizzandolo e defunzionalizzandolo (ready-made), la seconda toglie la parentesi e disperde il segno radicalizzandolo sia nell'uso di nuove tecniche e materiali (Frank Stella, Robert Rauschenberg, Jasper Johns), sia nel corpo e nei luoghi (come gli happening di Allan Kaprow o i décor di Broodthaers). È in quei tempi che nasce la Critica Istituzionale, corrente che mette in discussione l'istituzione che espone l'opera d'arte, come lo statuto dell'opera esposta, corrente che tuttora non possiamo dire esaurita. Per questo mi chiedo se sia possibile oggi rintracciare un nuovo riposizionamento del “segno” nella logica espositiva e come questo riposizionamento - laddove ci fosse - si collochi rispetto ai predecessori illustri...
M.S. Credo che proporre una Critica Istituzionale oggi non significhi solo denunciare esclusivamente gli apparati attraverso cui l’arte si espone ma richieda innanzitutto di decostruire i canoni della storia dell’arte e, soprattutto, l’arte come moderna istituzione. Altrimenti è come nel caso del libro di Claire Bishop, “Artificial Hells”, in cui dopo un lungo excursus sui casi storici e contemporanei di arte partecipativa, lei continua a chiedersi “dov’è l’arte qui?”. Intendo dire che avrebbe potuto trovare altri paradigmi estetici, avrebbe potuto valutare in altro modo questo tentativo di vocazione extra-disciplinare dell’arte (indipendentemente dai casi riusciti o no) invece di ricanalizzare tutta quell’esperienza nell’aderenza o meno ai principi dell’arte modernista. Parlare di ‘segno’(referenziale, indicale, disperso) mi riporta ancora una volta all’arte come linguaggio e dobbiamo capire che questo è un costrutto moderno per cui l’arte nasce da una separazione originaria (da tutto ciò che è non-arte) che, come tale, non è più possibile concepire oggi. Tanto meno in un mondo in cui tutto si è linguisticizzato e la fabbrica è diventata loquace. Sarebbe più coerente al contrario vedere come la creatività si sia socializzata e ridistribuita (senza alcuna nostalgia dei grandi maestri) al punto tale per cui l'istituzione Arte (in sé) diventa una sua minaccia. Minaccia di dissociazione della creatività dai suoi concatenamenti, minaccia di ricanalizzazione nella valorizzazione e nel controllo, ecc. Una critica istituzionale oggi può anche partire dal segno ma senza mai esaurirsi in esso, perché in gioco c’è la macroscala e il campo dell’arte è ormai molto ampio.

S.C. A proposito di critica istituzionale, October e i suoi critici – che si sono occupati parecchio di questa pratica - hanno indirizzato il loro sguardo stratificando il vedere, partendo, come te, da un assunto storico (e non storicistico – non ci sono universali, ma particolari materialmente determinati) in cui l'agire artistico si inserisce; sembra che in Italia questa forma di riflessione fatichi ad attecchire, pensi possa essere questo uno dei motivi di un malcelata “incomprensione” nei confronti del contemporaneo?
M.S. Sono d’accordo e penso che la ricezione italiana continui a reggersi ancora su un idealismo di matrice crociana. Solo negli anni Settanta c’è un enorme tentativo di porsi all’altezza della situazione ma certo non in ambito accademico. Anzi in quel momento – proprio per lo stretto connubio tra estetico e sociale – il cantiere Italia mi pare addirittura un’avanguardia. Poi sappiamo come sia stato duramente represso e che cosa si è instaurato al suo posto. Oggi esiste un pensiero teorico italiano nato in quegli anni (femminismo, stato d’eccezione, post-operaismo) e che propone una delle analisi più potenti a livello internazionale ma che l'Italia non ha voluto mai integrare e tanto meno l’ha fatto la nostra cultura artistica. Se si pensa alla proliferazione ovunque delle storie delle mostre, alle storie economiche delle collezioni, alle storie sociologiche, alle storie post-coloniali e di genere, si capisce come il livello italiano sia rimasto ancorato a una storia formale. Spero che il libro Utopian Display. Geopolitiche curatoriali possa positivamente deviare lo sguardo su altri contesti.

S.C. Il 1989 è la data spartiacque per la nostra era e, come dicevo prima, anche tu nella tua attività di curatore (mi riferisco in particolare alla triologia Il cacciatore bianco. Memorie e rappresentazioni africane, L'inarchiavibile e Non-Aligned Modernity, come a tutta l'attività rivolta al sud est asiatico), muovi da assunti storico-politici: l'analisi di un'arte in un mondo neoliberista e globalizzato, il cui valore oscilla tra mercato e comunità globale, pone quindi definitivamente in secondo piano l'aspetto formale dell'opera, ovvero il linguaggio artistico che la contiene e la esprime, a cui il pubblico italiano (e non solo) è tanto legato?
M.S. Sì, credo che l’89 sia uno spartiacque decisivo e la mostra che ho curato al Museo Pecci e ancora in corso, The Missing Planet, continua a fare i conti con quel gap temporale. In fondo il libro edito da Quodlibet prende le mosse dal nuovo assetto geopolitico che si è venuto a creare con il crollo della Cortina di Ferro. Ma se l’ordine mondiale della guerra fredda è entrato in crisi non si deve tanto al tentativo della cancellazione dei confini nazionali da parte del capitale quanto alla proliferazione che il capitale ne ha prodotto. Si tratta di confini fisici e digitali, come nel caso dei neo-nazionalismi o dell’echo chamber in ambito social media. In sostanza, misurarsi con lo scenario della globalizzazione significa rimettere in discussione molti assunti dell’arte moderna e della sua pacificata esportazione a tutte le latitudini. Vederla piuttosto come un limite di cui, oggi più che mai, dobbiamo disarmare il potere. Favorendo, altrimenti, l’emersione di storie complesse, intrecciate e situate localmente, di archivi ribelli e memorie represse, mai acquisite dall’univocità della modernità. Tali, cioè, da restituirci una riserva di potenziale non esaurito nella storia, mai definitivamente in essa compiuto, ma sempre pronto a diventare attuale. Che poi l’aspetto formale dell'opera risulti in primo o secondo piano non è un problema accessorio. E’ semplicemente un problema mal posto se si pensa che proprio a partire dal linguaggio formale è stata costruita la nozione moderna di arte, dimenticando la separazione specialistica da cui ha origine (una sorta di divisione del lavoro), l’egemonia imperialistica che la contrassegna e il riduzionismo che l’alimenta.

S.C. L'indipendenza e gli spazi indipendenti possono avere un ruolo di “contro mostre” per restituire la complessità del presente?
M.S. Certo, se pensiamo all’origine degli spazi indipendenti negli anni Settanta non possiamo che meravigliarci del ruolo e dell’importanza che questi hanno avuto per riorientare la storia dell’arte contemporanea. Food, 112 Workshop, The Kitchen, lo spazio Ecart o Zona, sono una costellazione che vale molto più di un intero museo. In questo senso è più facile raccontarne una storia che farne una fenomenologia: certo che da un artist-run-space uno si aspetta comunque una scompaginazione delle pratiche, non la riproduzione in scala di quelle egemoniche. Adesso abbiamo visto che la direzione della prossima Documenta è andata proprio a uno di questi spazi, il collettivo artistico indonesiano Ruangrupa e sarà interessante capire che tipo di strategia metteranno in atto. Comunque nella giuria selezionatrice comparivano molti nomi che ora sono in Geopolitiche curatoriali. C’è bisogno di nuovo coraggio e vedo che NESXT, da qualche anno, sta proponendo una nuova attenzione agli spazi indipendenti, concependo una piattaforma ampliata di confronto, dibattito e scambio.

S.C. Chiudiamo con la tua idea di mostra. Il mondo così com'è o come dovrebbe essere: cosa preferisci raccontare?
M.S. Ogni mostra è un fascio unico ed eterogeneo di tempi diversi (il passato remoto, il condizionale, il futuro come anticipazione del passato, ecc.) che interferiscono con il presente. Vorrei solo dire che mesi fa avevamo pensato, assieme all’artista, il titolo Politiche del disastro della prima personale italiana, presso il PAV, di Arahmaiani: artista femminista e ecologista di base a Jakarta e nota internazionalmente. Mai e poi mai avremmo pensato che un vero e proprio disastro, come la pandemia attuale, ci avrebbe impedito di aprire la mostra, un giorno prima dell’opening. Fino alla fine abbiamo montato l’allestimento pezzo per pezzo, poi le Turkish Airlines hanno interrotto i voli per l’Italia e il distanziamento sociale ha fatto il resto. Ignorando totalmente quello che, di fatto, è accaduto, le opere di Arahmaiani sono un esempio perfetto di sfida al disastro (neoliberista, ambientale, di genere) e dunque il contenuto avrebbe trovato il suo più giusto contesto. D’accordo con l’artista abbiamo deciso, però, di non aprire la mostra e di non farne circolare alcuna immagine. Visto lo Tsunami digitale di cui ci ha investito il sistema dell’arte contemporanea in questi giorni, credo che la decisione sia stata saggia. Non si può combattere l’inquinamento contribuendo ad alimentarlo.