Recensioni / Come sedurre il Drago? Con l'amicizia

Umile e dottissimo, riuscì nell’impresa di ammansire il Paese del Drago. Lo conquistò non brandendo la croce e il Vangelo, ma con la dottrina la conoscenza reciproca, il rispetto dell’immensa diversità di religione, di pensiero, di costumi che divideva e divide la Cina dall’Occidente. Prima ancora di portare la rivelazione cristiana – un messaggio che avrebbe potuto attecchire solo se preceduto dalla preparazione di un terreno fertile per il dialogo tra mondi “altri” – donò ai “fratelli cinesi” i tesori della sua Europa: la filosofia, la letteratura la scienza, le arti e poi la teologia. Per conquistare il cuore, Matteo Ricci – fine umanista e sottile gesuita – puntò alla mente. Non riuscì a convertire l'imperatore Wanli al cristianesimo, ma gettò il seme del cattolicesimo nella terra di Confucio. I frutti, la Chiesa continua a raccoglierli ancor oggi, quattro secoli dopo la missione del “Maestro del Grande Occidente”.
Il “Maestro del Grande Occidente” è padre Matteo Ricci, nato a Macerata nel 1552, agguerritissimo “soldato” – spiritualmente parlando – della Compagnia di Gesù destinato alle missioni d’Oriente che partì da Lisbona nel 1578 e giunse in Cina, dopo un viaggio che definire avventuroso è poco, dove rimase per il resto della vita guadagnandosi la stima e il rispetto dei sudditi del “Figlio del Cielo”, il titolo di Mandarino e l'appellativo di “Xitai”, “maestro occidentale” appunto. Quando morì, a Pechino nel 1610, per la prima volta nella sua storia millenaria la Cina concesse a uno straniero un terreno per la sepoltura: la sua tomba è ancora oggi onorata come il simbolo della possibilità di incontro e di amicizia tra popoli e civiltà.
La vicenda umana e culturale di Matteo Ricci è troppo nota per ripercorrerla nei dettagli. Molto di lui si è scritto e si è pubblicato negli ultimi anni (anche il senatore Giulio Andreotti qualche anno fa dedicò un libro al padre gesuita). Il motivo per il quale è però necessario tornare sull'argomento è la ristampa anastatica dell'edizione, datata Pechino 1601, della prima opera scritta in cinese dal religioso italiano: Dell’amicizia (Quodlibet, pagg. 208, euro 24; cura e traduzione di Filippo Mignini) con in appendice un inedito mondiale scoperto qualche anno fa alla British Library di Londra: l'autografo della traduzione italiana del testo compiuta dallo stesso Matteo Ricci e inviato al confratello Girolamo Costa a Roma nell'agosto del 1599.
Il libro – che raccoglie cento sentenze sull'amicizia, tratte per lo più da autori greci e latini – rappresenta lo strumento attraverso il quale padre Ricci inizia ad accreditarsi nel Paese che lo ospita come un predicatore-letterato, tentando un dialogo con la classe dirigente confuciana. E lo fa scegliendo un tema cruciale per la cultura cinese: l’amicizia, considerata dai cinesi uno dei vincoli sociali naturali indispensabile per l'esistenza stessa della società e dello Stato. Il gesuita ormai parla e scrive la lingua cinese come nessun europeo aveva mai fatto e ne ha assimilato abitudini e costumi, imparando a memoria “i loro libri”, ossia le opere di Confucio e di altri filosofi, e traducendole in latino. Ora è il momento di “restituire” sapienza con sapienza, presentando all'intellighenzia cinese un esempio dei documenti morali dell’Occidente.
Scritto negli ultimi mesi del 1595 a Nanchang, capitale della provincia del Jiangxi dove padre Ricci aveva stretto rapporti con due alti dignitari di corte il testo nasce come un’antologia di sentenze (all’inizio sono 76, poi cresciute a cento) che ebbero subito un’eccezionale accoglienza. Poi l’autore vi aggiunse un proemio in cui narra di come giunse nel Paese del Drago, e infine si arricchì di una prefazione di Feng Yingjing (1555-1606), un funzionario dell’Imperatore diventato amico del gesuita. In questa forma l’opera fu stampata a Pechino nel 1601.
Matteo Ricci attinge all’intero patrimonio occidentale (“philosophi, santi e tutti autori vecchi e moderni”), in parte servendosi della sua prodigiosa memoria, in parte consultando la piccola biblioteca che aveva portato con sé dall’Europa, spesso modificando le sentenze per adattarle al gusto e alle possibilità di comprensione dei suoi interlocutori. Tra i greci cita soprattutto Plutarco, Platone, Diogene Laerzio; tra i latini il più “saccheggiato” è invece Cicerone, seguito da Seneca; tra i cristiani, principalmente Agostino e Ambrogio. Si tratta di un testo destinato alla meditazione, molto vicino ai modelli di insegnamento per aforismi e precetti propri dei libri confuciani, scritto senza seguire un ordine preciso ma che ruota attorno a un nucleo di caratteri fondamentali dell’amicizia: l’essenza (il sentire l’amico come un altro se stesso); il fine (l’aiuto reciproco), il beneficio (l’aumento della gioia), il fondamento (la virtù e la giustizia); le proprietà (sincerità, fedeltà, disinteresse, condivisione); la difesa (l’amicizia è un bene talmente prezioso per il singolo individuo e per la società che deve essere protetto sia nella scelta degli amici che nella loro conservazione).
Apparentemente nulla più che un florilegio di antica sapienza occidentale, eppure il libro di padre Ricci si dimostrò un formidabile strumento di comunicazione tra due mondi lontani ma non inconciliabili: l'esempio pratico di come queste due culture possano accordarsi su temi fondamentali come quello dell’amicizia. Due mentalità e due dottrine – come scrisse il prefatore dell'opera – “che concordano come le due metà di uno strumento contrattuale”. Un insegnamento, così si espressero i primi destinatari dell’opera, destinato ad essere conosciuto anche tra “diecimila generazioni”.