Recensioni / Jacob Taubes, leggere il Novecento da «apocalittico della rivoluzione»

Comprendere ciò che accade attraverso segni che si dispongono lungo una traiettoria di cui prevediamo la fine, a prima vista potrebbe sembrare una profezia religiosa. Alle società moderne e laiche, per definizione non sembra data la possibilità di prevedere una fine, nel senso apocalittico del termine. Al massimo di posporla attraverso la logica progressiva di un miglioramento o peggioramento indefiniti.
Non una vera e propria fine dunque, ma una sorta di fine temporaneo, suscettibile di ulteriore fine, che per questo però da un lato non finisce mai e dall’altro non dura.
Ad alcuni interpreti tale gioco delle parti fra il fine e la fine è sembrato solo un modo per dissimulare il resiliente carattere religioso e apocalittico della stessa modernità – in tal senso si è parlato anche di «capitalismo come religione» (Benjamin). L’irrompere di eventi rivoluzionari, di accadimenti tanto inimmaginabili quanto reali (si pensi alla Shoah), di personaggi politici carismatici, del prospettarsi di futuri catastrofici (si pensi al rischio nucleare nella guerra fredda e oggi alla questione ambientale) ha talvolta sembrato svelare la fine che la modernità tiene dissimulata sotto la coltre dell’ideologia. Benché, paradossalmente, la nostra epoca preferisca definirsi non ideologica, anzi come quella nella quale sono state sconfitte le ideologie.
Svelare la fine, sia per smascherarla, sia per sostituirla con un’altra fine: da un finalismo implicito a un altro esplicito, cioè da una teologia politica secolarizzata a un’altra esplicitamente religiosa. In molti casi, questi due modi di rivelare la fine risultano congiunti o difficilmente distinguibili. Non è sempre facile attribuire a quale parte politica e religione tali rivelazioni della fine appartengano.
Per rendersene conto basta scorrere i nomi e notare il plurale del titolo che compaiono su due tra le più recenti pubblicazioni, edite entrambe per Quodlibet, che riguardano questi temi: Walter Benjamin, Hans Kelsen, Karl Löwith, Leo Strauss, Jacob Taubes, Critica della teologia politica. Voci ebraiche su Carl Schmitt<7i> (a cura di Giorgio Fazio e Federico Lijoi, pp. 259, euro 22) e Teologie e politica. Genealogie e attualità (a cura di Elettra Stimilli, pp. 382, euro 24).
Il testo forse fra i più emblematici riguardo le ambivalenze del pensiero della fine e della teologia politica è quello di Jacob Taubes, Escatologia occidentale (a cura e con un saggio di Elettra Stimilli, Quodlibet, pp. 325, euro 24), pubblicato la prima volta in Svizzera nel 1947, ristampato ora, dopo più di vent’anni dalla prima edizione italiana che Michele Ranchetti aveva allestito per Garzanti con una sua Prefazione, presente anche in quest’ultima edizione.
Per avere un’idea del complesso libro di Taubes è più facile vedere ciò che Escatologia occidentale non vuole essere, rispetto a ciò che è – dati anche i suoi tanti riferimenti palesi e non dichiarati appartenenti a opposti schieramenti: Weininger, von Balthasar, Barth, Althaus, lo Heidegger delle lezioni sulla fenomenologia della religione e di Essere e tempo, Scholem, Benjamin, Schmitt.
Escatologia occidentale non vuole essere una teologia liberale. E ciò perché la teologia liberale è la maggiore responsabile dell’idea di storia che pone all’interno di quest’ultima – e non fuori, come crede Taubes – il fine. È a causa di ciò che la teologia liberale dissimula la fine della storia rinviandola indefinitamente? Forse anche a motivo di tale differimento, l’epoca liberale si è potuta presentare come la «migliore possibile» (Popper) e inemendabile nei suoi fondamenti.
L’idea di storia delle teologie politiche liberali che Taubes critica somiglia molto a ciò che oggi si intende per «narrazione». Specialmente la «secolarizzazione» è per Taubes il portato ideologico principale di questa visione narrativa della storia, per la quale la fine è semplicemente un obiettivo di massima, un significato preventivo che serve a costruire una catena senza cesure, senza eventi decisivi che mettano politicamente in gioco tutto.