Recensioni / Anche i miti raccontano il loro privato

Eroi e figure mitiche, come centauri ed ermafroditi, indagati senza epica nel loro quotidiano

Esce una nuova edizione Le specie del sonno di Ginevra Bompiani

Se un angelo passa vicino alla vostra casa, sparategli. E quando sarà caduto nel vostro giardino. col petto insanguinato e le ali che sbattono debolmente sul terreno, avvolgetegli il capo e posatelo sulle vostre ginocchia, facendo da cuscino alla sua agonia».

L'idea di sparare agli angeli, nonché il desiderio di spiare il riposo degli ermafroditi e il fetore delle stalle di Augia, sono di Ginevra Bompiani. Nel 1975 la scrittrice raccolse in un piccolo e prezioso libro, Le specie del sonno , quelli che hanno l’apparenza di racconti e l’essenza di taccuini riempiti di osservazioni a proposito di dei ed eroi della mitologia greca. Fu, all’epoca, Franco Maria Ricci a pubblicarli e a chiedere a Italo Calvino una prefazione: che si può rileggere ora, nella nuova edizione del volumetto uscito presso Quodlibet (pagine 104, L. 19.000). “La moglie di Calvino, Chichita, mi ha rinnovato il regalo”, racconta Ginevra Bompiani con la sua voce cristallina e pacata (perfetta per una scrutatrice di sonni mitici). E racconta anche di una postfazione che ci doveva essere e non c’è: “Avrebbe voluto scrivere qualcosa anche Anna Maria Ortese. Il che, naturalmente, mi avrebbe dato una gioia immensa. Avevamo, in comune, un punto di vista: ovvero la predilezione per il terrain vague fra umano e inumano, per quell’esitazione continua dei mostri fra la bestia e l’essere pensante… Penso, per esempio, a tutta la selva delle creature che la Ortese ha descritto a mezza strada fra il divino e l’animale, e che sono far le creazioni più straordinarie del nostro tempo”.
Il che deporrebbe, se ce ne fosse bisogno, a favore del mai sopito interesse della letteratura nei confronti del mito. Che avrebbe una sua necessità perenne, al di là delle correnti e dei filoni che piò o meno ciclicamente fondano la propria centralità sulla componente mitica.
“Io credo che sia così. Le faccio un esempio: qualche giorno fa ascoltavo una vecchia intervista di Fellini, in cui, ad un certo punto, diceva “fuori del mio paese sono infelice”. Ecco: il mito è il nostro paese narrativo. Non dico che fuori di esso sono o siamo infelici: ma è un luogo casalingo, un posto dove ci si sente a casa. Le figure che abitano questa casa posseggono una sorta di docilità che mi riempie di gratitudine. E mi chiedo: perché vogliono tanto essere narrate? In altre parole, la necessità narrativa è la loro».

Questo vale per tutti i miti o in modo particolare per quelli greci, che sono quelli su cui lei si sofferma?

 «Tutti i miti fanno sentire a casa. Quelli greci, per me, sono forse più familiari. Credo che la stessa cosa si possa dire per gli scrittori che li hanno visitati in questi ultimi anni, come Calasso o Bettini. Anche loro si interessano soprattutto al racconto: e, anche se poi esplorano le congiunzioni o le diramazioni del mito, guardano ad esso come ad una cosa in movimento, inafferrabile non perché nasconda un senso oscuro ma per un suo nomadismo intrinseco, un suo «non star mai fermo", come dice Calvino. Ma in tutti i miti possiamo identificare le nostre radici nomadi. Se the sembra contraddittorio parlare, insieme, di casa e di fuga: non è così se si pensa al mito come al nostro campo profughi, la nostra dimora d'esilio.. O, se vuole, come al gatto di casa: sempre randagio e vagabondo, ma quando si acciambella e si addormenta, là è casa».

Una definizione senza enfasi, la sua. E prive di enfasi e di epica sono le sue figure mitiche: Eracle stanco prima di cominciare le sue fatiche, Teseo sbigottito nei labirinto, l’inquietante demenza di Psiche... Sono eroi molto umani e molto infelici, i suoi...

«Io non mi chiedo tanto "che senso hanno" queste figure, quanto "come dormono? che cosa mangiano? che gesti fanno?" e più ancora: “cosa stanno pensando?". E' la loro quotidianità che mi piace e sulla quale mi interrogo. Per esempio, sono stata molto a pensare a come dormivano i centauri: sembra semplice, ma se ci si riflette non è così».

Lo ha scritto, infatti: «Quando la bestia si stende, l'uomo che sbocca dal suo petto si trova ritto, con le braccia congiunte, gli occhi aperti, feroci; se l'uomo si sdraia, -le quattro zampe, senza appoggio, scalpitano nell'aria».

«Le figure del mito si rappresentano sempre negli stessi gesti. Ma la loro vitalità sta appunto nel fatto che dietro a quei gesti sempre uguali ci sono tutti gli altri che li raccordano. Venere naviga sulla conchiglia portata dai Tritoni: ma - ci è anche salita! Psiche si conca nel letto: avrà avuto sonno! Il mito è racconto e il racconto tende áll'infinito e alta proliferazione, non come una linea retta ,o spezzata, ma come un labirinto che cresce involute interne... Ciò detto, è vero che i suoi eroi non mi destano ammirazione, ma pena. Loro possono solo seguire quell'unica strada infinita che è la trama».

E quanto ha contato, per lei, la strada tracciata da Calvino?

«Moltissimo. Se devo pensare ad uno sguardo perfetto sul mito, penso alla lettura che Calvino fa, nella prima delle Lezioni americane, quella sulla leggerezza, del gesto di Perseo che depone la testa di Medusa su uno strato di foglie e di ramoscelli. All'esattezza di quel gesto e al miracolo che ne segue, quando i ramoscelli diventano coralli Esattezza e miracolo: a questo, in fondo tende il mito».