«Quello che appare come
un'evidente contraddizione di
fatto non lo è. Quando smetteremo di vedere il capitale come
agente di libertà, circolazione,
innovazione e svincolato dall'idea di stato centralizzato e autoritario sarà troppo tardi» dice
Marco Scotini, autore di Utopian
Display. Geopolitiche curatoriali
(Quodlibet), e la realtà determinata dalla pandemia ne è l'ennesima declinazione: la paura della
malattia e del contagio vengono
trasformati infatti nell'occasione per mettere in atto una strategia del controllo basata sulla divisione tra interno e esterno, fisico e digitale in una progressiva
sparizione del corpo. Una logica
che il sistema dell'arte contemporanea sembra riflettere, nonostante segnali opposti manifestati negli ultimi anni, assecondando le stesse gerarchie e concentrazioni di potere. E non si tratta
soltanto di ciò che vediamo in
questi mesi cui virus, con la sequenza cui tour virtuali, musei
online e simili; nel volume Scotini, direttore del dipartimento di
Arti Visive della Naba di Milano,
indaga gli ultimi vent'anni attraverso 1e riflessioni di quindici
teorici e curatori internazionali
tra America Latina, Cina, Africa:
un'analisi che va dagli studi sul
genere - con il «museo travestito» ideato dal queer activist Giuseppe Campuzano a Lima di cui
scrive il curatore e filosofo peruviano Miguel A. Lopez, - alle pratiche curatoriali che intendono
decolonizzare la storia delle
esposizioni per decostruime i canoni egemonici normativi.
Il progetto «Utopian Display»
che ti ha coinvolto per diversi
anni, con sospensioni e recuperi alterni a partire dal 2003, torna adesso sotto forma di libro
antologico, Utopian Display.
Geopolitiche curatoriali, La curatela è vista qui come una modalità della critica istituzionale
con cui si intende rileggere il
rapporto tra globalizzazione e
quella che recentemente è stata definita de-globalizzazione,La situazione attuale ci ha riportato a un intransigente nazionalismo nel far fronte a un'epidemia che è invece globale.
La concezione di «guerra alla popolazione» con cui Lazzarato legge l'ultimo stadio ciel neoliberismo e della globalizzazione mi
pare si adatti perfettamente a descrivere la pandemia di oggi. In
sostanza, per il capitale ogni occasione diventa una risorsa preziosa per mettere a profitto un
nuovo piano securitario e un'ennesima strategia di controllo
(spietata e pacificata) sulla popolazione. Un piano che attraverso
le ragioni della sicurezza avalla
e riproduce nuovi razzismi, sessismi, differenze di classe, servilismi, colonialismi. Nel caso della pandemia che viviamo è gioco
facile servirsi della casa, della regione, della nazione come barriere successive e garanti di immunità. Un concetto di immunizzazione securitaria che riafferma
integralmente fantasmatici gap
tra interno/esterno, identità/alterità, appartenenza/estraneità,
esperti/profani, digitale/fisico. Ma
non dobbiamo dimenticare che
prima del «malato» c'è stato «il terrorista» e che lo stato d'eccezione
entra nel diritto costituzionale
senza mai essere revocato, così come le tecnologie per il controllo
dell'iride e i body scanner sono ancora al loro posto negli aeroporti.
L'esposizione e la vulnerabilità
della popolazione a potenziale terrorista o malato («untore» direbbe
Agamben) fa sì che per il capitale
la libertà non sia solo impossibile,
ma addirittura un incubo. Se da
questo scenario ci spostiamo a
quello dell'arte contemporanea
le cose non cambiano. La crescita
esponenziale a tutte le latitudini
di musei e biennali, negli ultimi
vent'anni, oppure il fatto che artisti e operatori culturali da geografie diverse siano diventati famosi,
non deve farci perdere di vista che
i rapporti di potere non sono mutati e che la struttura del sistema
dell'arte è ancora totalmente concentrica e gerarchica. Questa
asimmetria è al centro dell'indagine sulle geopolitiche curatoriali
in Utopian Display.
I vari interventi del libro indagano il ruolo dell'arte contemporanea come global player, minandone però i canoni espositivi e
le narrazioni consolidate. Puoi
fornirci alcuni esempi?
Nessun dubbio che l'espansione
dell'arte contemporanea abbia
non solo accompagnato, ma promosso e legittimato culturalmente, la globalizzazione. Nessun dubbio che i musei e le istituzioni dell'arte siano diventate
palestre neo-liberali (sul modello delle imprese), prive di asperità e contrasti e che, in quanto tali, abbiano rinunciato alla sperimentazione e al proprio futuro.
Contro questo scenario attuale e
l'eredità positivista, del passato,
quindici curatori internazionali
cercano, in un arco di tempo che
va dalla fine degli anni '90 a oggi, di interrogare e decostruire
modelli espositivi e canoni storiografici, recuperando memorie collettive represse e archivi ribelli, ridiscutendo ruoli culturali e funzioni istituzionali, nel
tentativo di disarmarne il potere. Se penso al museo auto-espropriato di Anselm Franke, alla
mostra sulla biblioteca dei libri
interdetti di WHW o al Picasso
in Palestina di Charles Esche, alle denunce di autoesotismo di
Gerardo Mosquera e Tina Sherwell, è chiaro come l'impegno di
tutti consista nel rintracciare riserve di potenzialità non ancora
esaurite nella storia, mai definitivamente in essa compiute, ma
sempre pronte a farsi antagoniste, attuali contro-modelli.
Nel libro s'indaga la possibilità
di pensare l'arte fuori dal paradigma modernista che la connota come categoria culturale appartenente alla classe bianca,
maschile, imperialista e borghese. Allo stesso modo si delinea
una radicale problematizzare
della scena geopolitica dell'arte
contemporanea, con una particolare attenzione all'arte non
occidentale e a tematiche di genere. Quanto l'exhibition making può mettere in discussione
questo paradigma?
Se è vero che la decolonizzazione delle narrative e dei corpi è invocata in tutto il libro, è altrettanto vero che questa non potrà avere alcun effetto nel permanere
dei presupposti delle politiche
neoliberali attuali. Contro il punto di vista eurocentrico e patriarcale, il libro associa ricerche condotte sulle ex colonie e sul genere: dall'India di Geeta Kapur all'America Latina di Mosqera, dalla
denormalizzazione dell'iconografia dei corpi femminili in Andrea Giunta alla rievocazione
queer del passato in Miguel A. Lopez. I a geopolitica chi cui si parla
qui è quella della rivendicazione
chi un posizionarnento partigiano
e di un punto chi vista parziale.
Viene invocata la necessità di istituzioni durature, situate, con il
Il capitalismo
contemporaneo
fa apparire come
salvatore della
società ciò che
più la minaccia,
un progetto
di separazione
politica del corpo,
del lavoro,
dell'essere insieme
recupero dei pubblici abbandonati contro quella sciagurata versione del curatore permanentemente itinerante e buono ad acquisire incarichi solo come fasi
della propria carriera. Infine, rispetto alla negazione di qualsiasi
rivendicazione universalista, l'esempio, portato da Rasha Salti
dell'esposizione internazionale
d'arte di supporto politico alla Palestina, credo che sia un ottimo
deterrente.
Rispetto a quello che stiamo vivendo in questi ultimi mesi, in
cui a causa del confinamento
sociale musei e gallerie hanno
proposto una molteplicità di
contenuti visivi e testuali per sostituire l'esperienza reale, pensi tali surrogati siano efficaci?
Il carattere peculiare delle mostre è di essere dei dispositivi effimeri: qualcosa di circoscritto nello spazio e nel tempo. Come dice
Vasif Kortun, in uno dei saggi nel
libro, le mostre «non I,x)ssono essere prese cha uno scaffale e sfogliate
come un libro, né replicate come
un film sullo schermo». C'è sempre, in queste, un residuo che
mette in gioco l'hic et nunc del
contatto. Ricordo ancora. come,
appena prima del crollo della Cortina di Ferro, Heiner Müller rivendicasse all'arte un carattere impuro, di eiTore, di ritardo, quale
unica speranza. Perché l'uomo -
diceva - è più sporco ciel computer. Eppure lo tsunami digitale
che ci ha assalito in questi giorni,
con tutta una sequenza infinita
dl at-home-museum, curatele instagram, guided tours virtuali a
pone chiuse, ordine viewing
rooms, pare credere nell'esatto
contrario. E incredibile come il
capitalismo contemporaneo faccia apparire come salvatore della
società proprio ciò che più la insidia e la minaccia. E come qu.lest'ultirna, su un progetto cl'ilrecuperabile separazione politica (del
corpo, del lavoro, ciel nostro essere insieme), fondi ormai la propria speranza.