Recensioni / È ora di trasferire nella discussione pubblica il dilemma del vecchio mandarino

Il 22 febbraio scorso Carlo Ginzburg discuteva del suo libro Occhiacci di legno, (Feltrinelli 2009, ampliato e ripubblicato ora da Quodlibet) nel programma di Radio 3, “Uomini e profeti”, con Felice Cimatti. Proprio quel giorno i quotidiani scrivevano del focolaio infettivo rilevato a Codogno, in provincia di Lodi. Dopo, il contagio dilagò. Probabilmente la conversazione, che si può ascoltare in rete, avrebbe avuto nuovo alimento se fosse avvenuta qualche giorno dopo. Il sottotitolo del libro, “Nove riflessioni sulla distanza” (“Dieci” nella nuova edizione), avrebbe inevitabilmente richiamato il cosiddetto (male) “distanziamento sociale”: la distanza fra le persone imposta dall’epidemia, e diventata il suo complemento principale, fisico e simbolico.

C’è un argomento più imprevedibilmente pertinente al contesto della pandemia. Sta nel brillante capitolo intitolato “Uccidere un mandarino cinese. Le implicazioni morali della distanza”, ora anche in rete, minimaetmoralia.it. Ginzburg vi ricostruisce l’origine di un celebre apologo. E’ Diderot (1773) a osservare come la distanza, nel tempo o nello spazio, riduca fino ad annullarlo il sentimento morale: “L’assassino, finito sulle rive della Cina, non è più in grado di scorgere il cadavere che ha lasciato sanguinante sulle rive della Senna”. Occhio non vede, cuore non sente.
Agli antipodi convenzionali dell’Europa, la Cina funziona nel Settecento come il luogo esemplare dell’alterità. Impero immaginato dell’immobilismo e della lentezza, è il paradigma della distanza nel tempo, oltre che nello spazio. Eppure oggi, quando è il modello del cambiamento tumultuoso e irrompe in ogni angolo della nostra esistenza quotidiana, abbiamo guardato la Cina dello Hubei e di Wuhan in televisione, come se fossimo là, e ci abbiamo visto una bizzarria dell’altro mondo – un’intera provincia di 56 milioni di persone recluse in casa! Con le mascherine! E i grandiosi viali vuoti! – senza intaccare l’illusione di trovarci a distanza di sicurezza. E l’abbiamo guardata, quasi ipnotizzati, senza che una vera compassione riuscisse ad attenuare una sensazione di estraneità assoluta. Ci siamo detti, ed era successo già all’epoca della Sars, che forse la Cina stava uscendo sotto i nostri occhi dalla competizione per l’egemonia economica e politica mondiale. Che un’epidemia tutta sua la stava facendo fuori.

Come se non potesse arrivare fin qua. Era già arrivata. Raramente la classe dirigente occidentale aveva dato una simile prova di insipienza. Era impensabile, ha detto. Era stata pensata, in realtà, piuttosto esattamente. Poi perfino l’Italia è stata a lungo ignorata come se fosse distante quanto lo Hubei da Donald Trump.

Dopo Diderot, è Chateaubriand (1802) a svolgere il tema: “Se tu potessi, con il solo tuo desiderio, rimanendo qui, a casa tua, uccidere un uomo in Cina ed ereditare le sue ricchezze con la certezza assoluta che nessuno ne saprebbe nulla, consentiresti a formulare quel desiderio?”. Ci sono due differenze maggiori rispetto all’ipotesi di Diderot. Che agisci da lontano, dunque senza sporcarti le mani. E che il tuo delitto, ridotto alla sola formulazione del desiderio, ti esonera a priori da ogni imputazione e per giunta ti rende ricco. Chateaubriand attenua la responsabilità per rendere più forte il suo rifiuto della tentazione contenuta nella domanda. Non gli basta, e spinge l’esempio all’estremo: “Ebbene, per quanto mi sforzi di ridimensionare ai miei occhi codesto ipotetico assassinio, supponendo che, per mio stesso desiderio, il povero cinese muoia improvvisamente e senza dolore; che egli non abbia eredi, e che, venendo egli a morire, i suoi beni siano perduti anche per lo stato; per quanto mi raffiguri codesto straniero a me ignoto come oppresso da acciacchi e da dolori; per quanto mi dica che perciò la morte diverrebbe per lui quasi una liberazione e un bene; che egli stesso la invocherebbe, che nel momento in cui io formulassi il mio criminoso desiderio egli avrebbe comunque solo pochi istanti da vivere; ho un bel dirmi tutto questo: malgrado tutti i miei sotterfugi, sento nel profondo del cuore una voce che grida con tanta forza contro il solo pensiero di una simile supposizione, da non lasciarmi ombra di dubbio sulla realtà della coscienza”.
Queste determinazioni ulteriori ci portano già vicino al punto che voglio segnalare. Il povero cinese in questione è supposto “oppresso da acciacchi e da dolori”: attualizzando la traduzione, “portatore di multiple patologie pregresse”. E anche quell’estrema circostanza, che gli restino “solo pochi istanti da vivere”, può richiamare l’osservazione attuale su tanti morti di Covid-19 cui, statisticamente, “non restava molto da vivere”.

E arriviamo a Balzac, cui si deve l’elaborazione dell’aneddoto che l’ha reso proverbiale e gli ha procurato innumerevoli e inesauribili variazioni. Nel Papà Goriot, 1834, Rastignac mette alla prova dell’interrogazione il suo giovane amico, studente come lui, Bianchot: “Sono tormentato da brutte idee. Hai letto Rousseau?”. “Sì”. “Ti ricordi di quel punto in cui domanda al lettore che cosa farebbe nel caso in cui potesse arricchirsi uccidendo in Cina, con la sua sola volontà, un vecchio mandarino, senza muoversi da Parigi?”. “Sì”. “Ebbene?”. “Mah! Io sono al trentatreesimo mandarino”. “Non scherzare. Andiamo, se ti venisse dimostrato che la cosa è possibile, e che basterebbe un cenno della testa, lo faresti, tu?”. “E’ molto vecchio, il mandarino? Beh, giovane o vecchio, paralitico o in buona salute, in fede mia… Diamine! ebbene, no!”.

Balzac, che attribuisce la domanda a Rousseau per errore, introduce due nuovi elementi. Il generico “cinese” è diventato “un mandarino”, l’immagine più tipica (salvo l’imperatore: ma ipotizzare di uccidere l’imperatore cinese sarebbe troppo). E soprattutto, “un vecchio mandarino”. Non è un mero attributo: è un raddoppio dell’interrogazione. Alla distanza nello spazio, la Cina, si aggiunge la distanza nell’età, il vecchio. La cronaca facilita la comprensione della differenza: nella nostra pandemia il vecchio figura obiettivamente – e muore, anche – secondo una forma di sub-vita. Non è vivo del tutto. E’ ancora vivo, o non è ancora morto. L’intero svolgimento di Balzac si concentra sul punto. Si tratta solo di un cenno della testa, senza muoversi da Parigi, e si diventa ricchi, dice Rastignac. E Bianchon, che aveva azzardato una battuta, quando deve rispondere seriamente cede per un momento alla casistica delle attenuanti e chiede: “E’ molto vecchio, il mandarino?” Ma non aspetta nemmeno la risposta, e taglia corto – “giovane o vecchio, paralitico o in buona salute”, cioè la gamma attuale degli “anziani con multiple patologie pregresse” – Diamine! Ebbene, no!”.

Da Balzac in poi, la versione sarà questa. Freud, che la riprende da lui, dirà “il vecchio mandarino”. In un’intervista recente Fernando Savater, professore di Etica, precisa: “Devi immaginare questo mandarino che ha più di novant’anni, e crudele e malvagio oltre ogni immaginazione”. C’è una controprova. Nessuna versione del tema si sogna di ipotizzare che la vittima dell’omicidio “da remoto”, impunito e redditizio, sia un bambino: la risposta sarebbe scontata e sdegnata, e se no significherebbe una ripugnante provocazione. Oggi certi toni sul destino dei vecchi nella pandemia, le precisazioni che vogliono essere franche (il 47enne sindaco verde di Tubinga, Palmer: “Lasciatemelo dire brutalmente: stiamo salvando in Germania persone che sarebbero comunque morte nel giro di sei mesi”) coincidono con la benedetta circostanza che il coronavirus risparmia i bambini. Comunque, benché nessuna vita sia in saldo, una persona padrona di sé e “anziana”, cioè un vecchio, come me, avrebbe il privilegio della responsabilità, di decidere, moralmente o anche praticamente – sulla soglia di un reparto di rianimazione, per esempio – se valutare il proprio tempo supplementare più di quello di un bambino o di un giovane.

Il dilemma del mandarino riceve un trattamento diverso quando si trasferisce concretamente dalla filosofia morale nella medicina e nella giustizia. Il rianimatore-anestesista rifiuta di fare dell’età anagrafica il criterio di selezione quando le risorse siano insufficienti, pur avvertendo che l’età biologica e la condizione di salute dell’anziano entrano nel conto della probabilità di reggere alla terapia intensiva. Il giudice non fa alcuna distinzione di fronte a un omicidio, qualunque età abbia la vittima: uccidere una persona “molto vecchia, e paralitica”, come dice Bianchon, non comporta un’attenuante. Quando Dostoevskij scrive la sua versione del dilemma morale, in Delitto e castigo, fa scegliere non a caso la vittima in una vecchia usuraia, “inutile”. Il rimorso di Raskolnikov non ne sarà perciò minore, al contrario.

Morale provvisoria: intanto trasferiamo nella discussione pubblica attuale la risposta del giovane Bianchon, compreso il punto esclamativo.