Recensioni / Oltre l’identità. Riflessioni su un’Italia senza nazione

1. Estroflessioni

Osservando i lavori di Enrico Castellani o di Agostino Bonalumi, l’occhio dello spettatore deve scontrarsi con una materia che preme al di sotto della superficie della tela, quasi a bucare lo spazio bidimensionale, assunto fino ad allora come convenzione pressoché indiscussa della rappresentazione pittorica. Nella poetica di questi artisti italiani del secondo Novecento, la tela non rappresenta soltanto un supporto convenzionale, quanto piuttosto il luogo a partire dal quale condurre una riflessione concreta sulla forma. Questa tendenza all’estroflessione dello spazio pittorico, compiuta attraverso l’uso di sporgenze quali chiodi, legni o metalli, esibisce un’evidenza elementare – l’estrema artificiosità dello spazio bidimensionale – di cui i tagli e i buchi di Lucio Fontana si facevano già latori. È interessante tuttavia notare che per svolgere questa operazione – per andare oltre la tela, per estroflettere lo spazio convenzionale – gli artisti non possano fare a meno di adoperare la tela stessa, mantenendola come sostegno atto a distruggere la convenzione. In questo particolare intervento negativo dell’artista, la tela si configura come il luogo di una critica formale, conservando al contempo il suo statuto di barriera tra lo spazio della rappresentazione artistica e quello fisico dello spettatore. Nelle loro «estroflessioni», gli artisti non eliminano dunque il supporto materiale, ma ne fanno anzi – constatati i suoi limiti – il luogo di un potenziale superamento.
È possibile in un certo senso adoperare questa contraddizione costitutiva del «movimento spazialista» per svolgere alcune considerazioni a margine del volume curato da Antonio Montefusco, Italia senza nazione. Lingue, culture, conflitti tra Medioevo ed età contemporanea, pubblicato da Quodlibet nel 2019. Percorrendo una strada alternativa rispetto alle auto-interrogazioni e alle autoanalisi dell’Italian Thought, oggetto di recenti dibattiti e pubblicazioni1 , gli autori e le autrici dei nove saggi raccolti da Montefusco ambiscono a estendere la riflessione sul pensiero italiano insistendo in particolare sulla tendenza all’estroflessione, intesa come «tensione verso il fuori rispetto a ogni determinazione nazionale» (p. 20). Tale peculiarità viene confermata dalle principali opere letterarie e filosofiche che fondano l’IT, marcate dalla costante necessità di stabilire nessi tra cultura, letteratura e politica. Il volume non intende effettuare una disamina interna alla Theory, ma cerca viceversa di restituire un affresco da fuori del pensiero italiano (per citare il titolo del noto saggio di Esposito)2 , attraversandone contraddizioni e aporie. Detta diversamente: i dieci autori coinvolti nel progetto non mirano ad affermare o a negare l’esistenza della Theory o la sua composizione, ma tendono piuttosto a evidenziare la portata politica del suo modello, segnalando la capacità di costituire una narrazione alternativa al discorso politico dominante.
Italia senza nazione marca un paradosso strutturale per certi versi invalicabile: contro un nazionalismo identitario e una «brandizzazione» della Theory all’interno del mercato accademico, i saggi raccolti nel volume individuano una territorialità diffusa del pensiero italiano, attraverso l’utilizzo del «non filosofico» e del negativo come strumenti di analisi dei rapporti di forza che intervengono in uno spazio difficile da perimetrare entro rigidi confini geografici. Questa particolare proposta critica ha il merito di assumere la contraddizione senza risolverla nei dogmi di un pensiero logico-analitico, mantenendola piuttosto attiva come strumento positivo di indagine. Se da una parte, la triangolazione tra vita, politica e storia – tipica secondo Esposito del pensiero italiano – si rivela una marca costitutiva dell’Italian Thought, dall’altra, la stessa sua peculiare impostazione conoscitiva sfugge dalla costruzione di una fisionomia identitaria, servendo piuttosto a smascherare i presupposti teorici che fondano un’identità forte, o meglio degli agenti storici e politici che la utilizzano a discapito e a esclusione di alterità e minoranze. Questo «felice paradosso» costituisce al contempo la fisionomia dell’Italian Thought, nella sua «dimensione non nazionale e dunque, in quanto tale, cosmopolitica, come la definiva Gramsci, o deterritorializzata, come direbbero Deleuze e Guattari» (p. 71). L’apparente antinomia prodotta sul piano teorico – il superamento dell’identità attraverso la genealogia di un pensiero contrassegnato da forti spinte istituzionalizzanti – fa eco a una più ampia evidenza storicopolitica dell’«Italia senza nazione», esplicitata, come scrive Daniele Balicco, in una «tradizione culturale che non riesce ad identificarsi con la storia moderna del suo Stato» (p. 146).

2. Disfare l’identità
Nelle circa duecento pagine del libro, il concetto moderno di nazione risulta, sin dal titolo, depotenziato. Il volume ha il merito di seguire il pensiero italiano nella sua ricostruzione genealogica, senza agitarlo come un vessillo accademico, ma rivelandone piuttosto le forti implicazioni politiche – e le possibili aperture – di fronte all’attuale paesaggio culturale. Come osserva Montefusco nella sua introduzione, la tendenza all’estroflessione e al “fuori” del pensiero italiano permette in questo senso di «disfare un discorso di identità (italiana o altra che sia)» (p. 10).
La costruzione architettonica dei saggi – nonché il loro carattere trasversale – risulta coerente con le modalità analogiche condivise dagli autori del pensiero italiano (da Dante a Machiavelli, da Vico a Leopardi). Secondo Esposito, infatti, «quello che gli autori italiani, essi stessi contemporaneamente filosofi, politici, scrittori, artisti, fanno è tenere una porta aperta tra i linguaggi della ragione e del senso, della deduzione e del racconto, del logos e del mito – altrove chiusa da un progetto formalizzato e astratto di matematizzazione del mondo» (p. 65). La messa in evidenza di questa strategia conoscitiva consente di intravedere nel volume soluzioni possibili alla dicotomia identità-alterità, scorgendo nel presente i segni di un discorso mai scisso da un orizzonte di storicità. Una storia – come recita la citazione foucaultiana posta in esergo all’introduzione – che non viene configurata quale «serva della filosofia», incaricata di «raccontare la nascita necessaria della verità e del valore», ma al contrario assunta come «conoscenza differenziale delle energie e dei cedimenti, delle sommità e dei crolli, dei veleni e degli antidoti», come «scienza dei rimedi».
Riflettere su un’Italia senza nazione significa in primo luogo spostare la riflessione sulla politicità del pensiero italiano dall’identità nazionale alla sua forma. In una recente intervista ricordata da Montefusco, Mario Tronti identificava non a caso, nell’Italian Thought, «un pensiero che si è radicato in questo Paese, in questa “forma-nazione” ancor prima che diventasse una vera e propria nazione o uno Stato»4 . Fuori da ogni retorica risorgimentale, l’Italia svelerebbe nella storia del suo pensiero la sua forma complessa e policentrica; e il suo “popolo” si mostrerebbe quasi mai compatto, attraversato da continue frequenze, intercettabili in primo luogo nella dimensione linguistica.
Lo spostamento della riflessione sul pensiero italiano dall’identità alla sua forma e funzione restituisce un moto teoretico centrifugo – estroflesso appunto – in procinto di esplodere in traiettorie e ondulazioni originate da una matrice comune. Le linee generali di questo primo nucleo «post-identitario» vengono presentate da Dario Gentili e da Elettra Stimilli in Configurazioni di pensiero e potenzialità politiche. Contro astrazioni e nazionalismi (pp. 19-30). Interessa agli autori stabilire se «l’Italian Theory – in quanto gesto e operazione teorica, culturale e politica – sia in grado di disfare e diversamente ricomporre tanto l’identità italiana quanto la theory» (p. 19). Di qui anche lo spostamento di interesse da una «teoria unitaria e condivisa» al pensiero, al Thought, secondo la proposta di Esposito. I due autori interrogano le motivazioni che hanno prodotto l’interesse internazionale di questa «differenza italiana» rispetto al pensiero tedesco e alla decostruzione francese, rimaste bloccate, secondo loro, «all’interno di un percorso autoreferenziale senza più presa sul reale» (p. 23), laddove l’Italian Thought connetterebbe invece produzione teorica e gesto, anche attraverso il paradigma biopolitico.
A differenza inoltre delle correnti di pensiero postmoderne, la filosofia italiana sembrerebbe interessata a rivalutare le grandi narrazioni, senza tuttavia prospettarle «come nuove filosofie della storia in reazione alla fine della storia post ’89», ma presentandole «piuttosto e precisamente con l’impostazione minuziosa e materialista della genealogia» (p. 26). L’intento degli autori non è quello di affermare una theory come brand all’interno del mercato neoliberale, ma di scorgere nel discorso italiano una possibilità di apertura a una dimensione politica diffusa, «i cui confini sono tutt’altro che prestabiliti o già definiti, ma che comincia a costituirsi come una rete senza un centro di emanazione, capace di riannodarsi ovunque se ne presenti l’occasione» (p. 29). Da qui l’estrema attualità e politicità di un pensiero che tenta costantemente di uscire dalla logica identitaria forte, riconoscendo, per dirla con Remotti, «il ruolo “formativo”, e non semplicemente aggiuntivo o oppositivo, dell’alterità». Il passaggio dall’identità alla politicità della forma è accompagnato nel volume a una contestualizzazione dell’IT nelle categorie spaziali e temporali. Nel suo contributo al volume, Terra Sancta. Sul carattere anatopico ed anacronico di ogni conoscenza (pp. 31-58), Emanuele Coccia insiste sul carattere prettamente speculativo di ogni geografia reale e cita a sostegno delle sue tesi gli studi di Arjun Appadurai sulle «comunità diasporiche» , capaci di «rendere intelligibile e soprattutto visibile l’invisibile lavoro “immaginario” e mitografico della comunità “autoctona”» (p. 32). Secondo Coccia, «il realismo geografico dovrebbe essere rovesciato e piuttosto che chiedersi in che modo lo spazio (etnico, culturale, politico) produce sapere e conoscenza, bisognerebbe chiedersi in che modo ogni conoscenza modifichi lo spazio e la sua esperienza, la trascenda, la renda incommensurabile dalla sua realtà “immediata”» (p. 32). Una parte sostanziale del saggio rielabora la questione di fondo che attraversa il volume: contro la nazione come frutto di un processo geografico, il pensiero italiano si darebbe come sapere in grado di produrre a più livelli il suo tempo e il suo spazio (è qui attivo un ribaltamento di una logica secondo la quale sarebbe il realismo geografico, lo Stato-nazione come invenzione storica, a produrre sapere e conoscenza). Piuttosto che parlare di Italian Theory bisognerebbe secondo Coccia «chiedersi attraverso quali “effetti di nazionalità” un’idea o un pensiero possano esser percepiti (a un certo punto del tempo e dello spazio) come intrinsecamente “italiani”» (p. 32). L’estroflessione spaziale del pensiero italiano viene messa a confronto dall’autore con la teologia medievale, «scienza atipica, apolide, dotata di un’origine multipla da un punto di vista geografico e culturale, […] sapere estremamente metamorfico, e proprio per questo pandemio, capace di diffondersi ovunque» (p. 33). Emerge da questa disamina un concetto chiave per comprendere l’IT, ovvero l’«anatopismo», inteso come «il fatto di attribuire a uno spazio il carattere di un altro spazio» (p. 34). La teologia, fondata sul dispositivo «anatopico», si inserisce in questo discorso come specola critica per osservare il paradigma del pensiero italiano a partire da una distanza epistemologica radicale rispetto al concetto di nazione, costruito sulla base di una geografia reale.
In una sapiente costruzione speculare con il saggio di Coccia, quello di Esposito integra la riflessione sull’Italian Thought marcando l’attitudine alla temporalità del pensiero italiano, caratterizzato dalla tendenza alla “anacronia” e all’anacronismo, come figure centrali di un metodo investigativo legato all’estroflessione del pensiero verso le origini. Oltre a riassumere i principali episodi e passare in rassegna alcuni autori dell’IT, il contributo di Esposito – Genealogia dell’Italian Thought (pp. 59-72) – insiste sulla capacità del pensiero italiano di ricercare le origini attraverso un procedimento che porta a leggere il passato con le categorie del presente e allo stesso tempo a leggere il presente con le categorie del passato (indicativi risultano i concetti di sacertas, imperium, persona, bios utilizzati nella recente riflessione italiana). Questa temporalità trasversale – lo sguardo sul passato e sulle origini – permetterebbe di elaborare categorie di pensiero utili alla ricerca di soluzioni a contraddizioni attuali. Anche nella dimensione temporale è possibile dunque leggere la tendenza del pensiero italiano all’estroflessione, che ha certo delle ricadute importanti nel modo di concepire la politica e le istituzioni:

Nato al di fuori di un dato organismo statale, il pensiero italiano ha pensato, e pensa, lo stesso politico prima, fuori, e a volte perfino contro lo Stato. Esso è, prima ancora che uno spazio definito, un luogo di transito e traduzione di concetti, linguaggi, immagini che vengono da fuori e vanno verso il fuori. Questa è la sua forza e la sua originalità. In questo senso la domanda su cosa sia l’Italian Thought va modificata in quella su cosa possa essere, su cosa possa divenire, su cosa possa ancora originarsi dalla sua continua trasformazione (p. 71).

Proviamo a verificare questo «primato politico del fuori» – del tempo e dello spazio – esaminando alcune figure che ricostruiscono i tratti fondamentali del pensiero italiano.

3. Figure del movimento
In Italia senza nazione, lo spazio letterario viene assunto come luogo in cui è possibile valutare l’incidenza di una «deterritorializzazione» del pensiero italiano. Non è un caso che gli autori indicati dalla genealogia tracciata da Esposito siano distanti dalla fisionomia rigida del filosofo moderno, rivendicando viceversa, con il loro atteggiamento speculativo, un discorso di frontiera tra spazio politico e spazio letterario «radicalmente refrattario sia alla chiusura logico-analitica della tradizione anglosassone, sia alla purezza tecnica della metafisica tedesca» (p. 69).
Come ha in effetti osservato Asor Rosa, «si potrebbe dire che, paradossalmente, il letterato italiano pretende di fare il politico senza rinunziare ad essere retore». La figura più ricorrente nel volume è quella di Dante, capace di riassumere l’intero paradigma di un pensiero posto di fronte a un dissidio tra progettualità politica e superamento di un’epistemologia centralista. Nella restituzione dei nuclei fondativi del pensiero italiano, la traiettoria biografica di Dante assume una doppia funzione: da una parte, essa rivela, con la sua opera, l’impasse del progetto politico nazionale, sfuggendo all’immagine pacificata e altisonante promossa dalla retorica risorgimentale; dall’altra, la sua figura scopre l’attitudine del pensiero italiano al movimento, inteso come trasformazione, conversione del passo dell’esiliato in energia pronta ad alimentare un pensiero multiforme. Diversamente dall’abbandono al flusso postmoderno, il movimento espresso nell’opera dantesca riguarda la possibilità di intervenire simultaneamente nello spazio letterario e in quello politico, senza mai obbedire a una logica gerarchica di priorità. In una dimensione strettamente temporale, questa caratteristica si collega alla capacità di muoversi dal passato al presente e dal presente al passato, secondo la tendenza «anacronica» messa in luce da Esposito: «fissandoli per sempre in una data situazione figurale, Dante legge il tempo nell’eternità e l’eternità nel tempo, creando di fatto il primo, e insuperato, meccanismo anacronico all’origine della nostra tradizione» (p. 63). La stessa Commedia instaura un rapporto diretto con l’origine e con la genealogia, configurandosi «come il punto estremo in cui s’intrecciano indissolubilmente origine e attualità, passato immemoriale e storia contemporanea di Firenze» (p. 63).
Rigettata l’operazione più antistorica del Risorgimento italiano, che ha trasformato Dante nel «Padre della Patria» depotenziandone le caratteristiche più sperimentali del suo discorso (p. 79), l’opera dantesca esprimerebbe al contrario la resistenza a un imbrigliamento identitario, a causa non soltanto dei motori concettuali che la muovono, ma anche per la sua radicalità linguistica, teologica e ideologica. Nel saggio Scrittori, Popolo, Italian Thought (pp. 73-98), anche Montefusco dedica una parte della sua riflessione alla figura di Dante, riportando una frase (già citata da Esposito) di Francesco De Sanctis, che nel suo tentativo di stabilire una fisionomia della letteratura italiana nazionale su modello europeo, aveva dovuto scontrarsi di fronte a un’evidenza scandalosa: «Dante, che dovea essere il principio di tutta una letteratura, ne fu la fine». L’affermazione di De Sanctis rappresenta in un certo senso un’ulteriore conferma della proposta rizomatica presentata in Italia senza nazione. L’evidenza con cui De Sanctis deve confrontarsi costringe ad allontanare la figura di Dante dai binari di una storia progressiva, sottolineando il fallimento di un progetto letterario italiano compatto, che viceversa continua a esplodere e a fuoriuscire in piani vettoriali complessi. Come in effetti ha ricordato Esposito, in riferimento alla Storia della letteratura italiana di De Sanctis:

Risulta singolare che un lavoro, nato con l’intento di definire, e anche costruire, un’identità di carattere nazionale, la colga proprio nella continua alterazione di ciò che dovrebbe essere, in una sorta di decostruzione dell’identità. È come se la storia della nostra letteratura – l’unica a poter supplire alla mancata unità politica – non potesse avere l’esito positivo di aggregare le classi dirigenti del Paese, perché minata, e quasi impedita, da una crisi originaria, già a partire da Petrarca e dal petrarchismo, e riprodotta in maniera potenziata lungo tutto il suo percorso (p. 69).

Il secondo elemento che si ricava dalla figura di Dante in relazione al pensiero italiano riguarda, come si è anticipato, il movimento, rintracciabile sia sul piano temporale (la genealogia e l’anacronismo come possibilità di andare dalle origini al presente e viceversa, facendo dell’origine un luogo non soltanto di provenienza, ma di «produzione»); sia sul piano fisico e immaginario (l’oltretomba dantesco come «anatopismo», secondo la definizione di Coccia). È stato Osip Mandel’štam, nella sua Conversazione su Dante, a insistere su questo aspetto, tanto da rendere il passo dell’esiliato costitutivo dell’intera architettura formale della Commedia, dalla sua topografia simbolica alla più piccola unità linguistica. Il Dante di Mandel’štam risulta in effetti in costante cammino, sempre in procinto di battere con le sue «suole di pelle bovina […] i sentieri da capre dell’Italia». L’Inferno, e ancor di più il Purgatorio, finiscono addirittura per diventare, secondo il poeta russo, la celebrazione stessa della «camminata umana, la misura e il ritmo dei passi, il piede e la sua forma» che, nella mescolanza tra pensiero e respirazione, tra mente e corpo, arriva a definirsi come un criterio prosodico essenziale dell’intera Commedia.
La disposizione della Commedia al movimento – opera in grado, secondo Montefusco, di offrire «in tutti i sensi gli strumenti per verificare l’ipotesi della consistenza di una differenza italiana» (p. 91) – ha delle ricadute notevoli non soltanto sulla concezione dello spazio e del tempo del pensiero italiano, ma anche sulla costante porosità dei generi letterari, sulla moltiplicazione dei punti di vista e, non ultimo, sulla questione linguistica, di cui Dante è lo sperimentatore e l’innovatore per eccellenza della tradizione italiana. Quest’ultimo punto riflette un’ulteriore «ossessione» dello scrittore italiano, sempre tormentato a ricercare una soluzione alla questione linguistica, mai scissa da una più ampia progettualità politica ed estesa quindi sul terreno delle istituzioni, come dimostra il saggio di Montefusco. Per l’intellettuale italiano, infatti, conta «meno l’italiano e più chi lo possa misurare, autorizzare, sviluppare. Più del linguistico, conta il politico» (p. 14).

La propensione al movimento – la conversione della vita in opera – non viene esaminata, in Italia senza nazione, nella sola dimensione «alta» della tradizione letteraria italiana; essa è al contempo misurata con figure che appartengono a quella che Luca Salza definisce nel suo saggio, sulla scorta di Deleuze e Guattari, un’«Italia minore» (pp. 123-144). Protagonista di questa soggettività dal basso, che esprime il rifiuto per un’imposizione identitaria, è il soldato italiano della Grande Guerra, quel Vincenzo Rabito, citato in epigrafe al contributo che batte a macchina la sua straordinaria Terra matta, intessuta di una lingua preletteraria e antagonista del centralismo della Patria. L’evento simbolico – o meglio la «festa», cioè «un’interruzione del corso normale degli eventi» (p. 125) – è Caporetto, veicolo e quasi anticipazione di ogni manifesto pacifista di una moltitudine non organizzata. A Caporetto si dispiegherebbe secondo Salza un «potere destituente», in grado di scalzare le categorie classiche della politica (la rappresentanza, il riconoscimento, l’opposizione, ad esempio), fino a mettere in discussione – in assenza di una dialettica forte tra avversari e alleati, nemici e compagni – il concetto stesso di resistenza, oggetto invece del saggio di Stefano Jossa (Resistenze: appunti per un’antropologia italiana, pp. 99-121). Contro la retorica del Piave, Caporetto rivelerebbe dunque l’attualità politica di un’emergenza imprevista «di un non-popolo, di un popolo senza identità, di un popolo che non è nazione» (p. 124).
Figura di questo potere negativo come moltitudine (una moltitudine che tuttavia viene osservata nella sua «presenza», priva di organizzazione politica) è il disertore, l’«Überläufer», colui che «corre oltre, va aldilà». Il termine tedesco, mutuato da una delle Lettere di prigionieri di guerra italiani, 1915-1918, raccolte da Leo Spitzer, ricalca il gesto di sottrazione potenziale che spontaneamente destituisce ogni ricaduta sulla vita della forzatura identitaria. Il «correre oltre» e l’«andare aldilà» non vanno tuttavia confuse come fughe verso qualcosa, ma piuttosto come movimenti da qualcosa, rifiuti:

Non si tratta tanto […] di ricercare un altrove. Nella «mobilitazione totale» non c’è fuori. Quello che conta è la corsa, o il cammino ininterrotto, che porta il disertore oltre il suo vecchio mondo, oltre la sua comunità, oltre la sua famiglia, anche oltre la sua lingua. È così che il suo gesto di sottrazione, la diserzione, apre verso un futuro che ancora non c’è. Prefigura un mondo unito, senza guerra, una comunità universale (e diversa). Non è un ritorno al passato, al campanile del suo villaggio (p. 141).

A differenza dei soldati russi che si uniscono agli operai, Caporetto non produce niente di duraturo, ma apre per Salza una «eterotopia» pronta a far emergere una soggettività diasporica, nomade. Allo stesso tempo, trova spazio nel volume il «cervello in fuga», secondo Montefusco «figura» – in senso biblico – «dell’intellettuale esiliato e apolide che trova fuori d’Italia lo spazio per sviluppare il proprio talento, illuminando a ritroso il capitale culturale di partenza, che risulta impossibile da contenere nello spazio del paese, essenzialmente in ragione delle conseguenze di quello “sviluppo senza progresso” denunciato da Pasolini all’alba di quello che, un tempo, si era chiamato “neocapitalismo”» (p. 11).

4. Cartografie
Il carattere diasporico del pensiero italiano trova nei saggi di Italia senza nazione anche un valore affermativo. La soggettività nomade, espressa nelle figure dell’esiliato, del disertore e del «cervello in fuga», consente di aprire un orizzonte di superamento di una rappresentazione statica sempre confrontata – e quindi valutata – su parametri estranei all’antropologia italiana. Un esempio tratto dalla galassia degli autori dell’IT viene offerto in questo senso da Vincenzo Cuoco, la cui analisi dei fallimenti della rivoluzione napoletana aiuta a comprendere alcuni errori strategici del modo di configurare la situazione italiana rispetto alle tradizioni di pensiero e alle configurazioni politiche degli altri stati europei. Cuoco scopre nella sua storiografia un fondo preistorico o non storico tipicamente italiano, che eccede la progressione lineare degli eventi verso un progetto politico modellato su una realtà “alloctona”. Come ricorda infatti Esposito, l’errore tragico dei rivoluzionari napoletani è stato quello di aver immaginato di poter mutare questo «fondo preistorico o non storico»; «o di non tenerne sufficientemente conto, trasponendo nell’Italia meridionale quanto era successo in Francia un decennio prima, senza considerare le caratteristiche geo-antropiche delle popolazioni meridionali» (p. 68). Evidenziato questo scarto antropologico, la sfida di un discorso critico sul pensiero italiano diventa quella di trasformare la differenza in una proposta attiva, finalizzata a immaginare diversamente – e con gli strumenti sopra esaminati – il presente. Italia senza nazione risponde anche a queste sollecitazioni – in particolare nell’ultima parte del volume – con i saggi simmetrici, legati come i precedenti da un sapiente filo rosso che ricalca il movimento caratteristico dell’Italian Thought, di Daniele Balicco e di Alessandro Casellato.
Entrambi i contributi possono essere ricondotti a una citazione di Fredric Jameson che riassume lo slancio del pensiero a dotarsi di una progettualità elaborata sul piano della produzione simbolica. Come ricorda già Balicco, Jameson intravede nella produzione di una forma estetica o narrativa «un atto in sé ideologico, la cui funzione è di inventare soluzioni immaginarie o formali a contraddizioni sociali insolubili». Nella sua proposta di una Modernità godibile, Balicco individua nel Made in Italy questa possibile via d’uscita dalla narrazione distruttiva dell’Italia seguita dalla crisi economica. Il saggio presenta un modo alternativo di pensare i processi di costruzione del simbolico, invitando a «scardinare l’interpretazione teorica più tradizionale che semplicemente oppone alla politicizzazione di massa degli anni Sessanta e Settanta i terribili anni Ottanta come anni di catastrofe antropologica, di riflusso nel privato, anni di semplice gestazione del ventennio berlusconiano» (p. 155).
La sfida viene accolta da Alessandro Casellato, che nel suo Made in Italy storiografico. Esiti culturali di una sconfitta politica (pp. 159-177) allarga la questione formulata da Balicco «provando ad applicare al campo storiografico il vivace dibattito sull’Italian Thought» (p. 159). Vengono così analizzati i paradigmi storiografici della microstoria e della storia orale, opposti a un uso positivistico delle fonti orali e costitutivi di una «storiografia all’italiana», configurata come tendenza a rielaborare le sconfitte della militanza politica degli anni Settanta, valorizzando le soggettività e la memoria. La collocazione generazionale dei protagonisti di questo rinnovamento italiano del metodo storiografico, unita all’implacabile tendenza al movimento, diventano fattori non indifferenti nella configurazione di una forma – storiografica in questo caso – in grado di rispondere all’urgenza di «inventare soluzioni immaginarie o formali a contraddizioni sociali insolubili»15. Disegnando una cartografia complessa non soltanto nei singoli saggi (in relazione all’oggetto di studio trattato), ma nella struttura globale dell’opera, la cui forma veicola un gesto nel presente, Italia senza nazione ricalca e restituisce quel movimento critico-negativo e al contempo propositivo di un’elaborazione teorica e politica verso il futuro. Mai come in questo caso assume un significato pieno la struttura del volume collettivo, che permette di ricavare una moltitudine di luoghi e di voci. La moltiplicazione dei punti di vista differenti (di un’alterità non fondata soltanto sui soggetti, ma sui campi di indagine e sui momenti storici attraversati), nonché l’estrema mobilità di un pensiero rizomatico capace di attivare i paradossi e di mantenere le contraddizioni come energie produttive dei discorsi, danno al volume un valore straordinario, fondato sulla convinzione «che esclusivamente adottando una prospettiva parziale si può ottenere una visione oggettiva» (p. 195). Sul significato di questa specifica impostazione formale, concludo prendendo a prestito alcune riflessioni finali del saggio di Monica Cristina Storini («Du côté de chez critique»: tra Cesare Segre e lo spatial turn, pp. 179-198), che analizza le trasformazioni e la crisi della critica letteraria italiana degli ultimi decenni. Nel suo contributo, Storini insiste sull’importanza che contingenze e contesti hanno nella ridefinizione di un posizionamento critico e nella creazione di pensiero situato come «atto conoscitivo che vede le differenze partendo innanzi tutto dalla propria differenza, declinandola, presentandosi come parziale e non universale e facendo di tale parzialità il punto da cui guardare alle altre» (p. 194). Questa differenza:

si esplica all’interno di un insieme, di uno spazio che non si occupa singolarmente o individualmente, ma unitamente ad altri soggetti. È dunque il prodotto di un atto collettivo, luogo di parzialità e differenze che si illuminano reciprocamente, rendendosi visibili e rendendo visibili altre potenzialità e differenze, prima insospettate e insospettabili. Diviene così un territorio fatto di relazioni interne e di rapporti di potere, traducibile in una mappa, o meglio, in una cartografia, che ne è, insieme, immagine e atto interpretativo: la cartografia rappresenta, infatti, una dimensione descrittiva dei cambiamenti in corso in un determinato momento storico (p. 195).
Depotenziata da ogni realismo geografico, la cartografia tracciata in Italia senza nazione reclama l’urgenza di un oltre orientato alla ricerca «di nuovi spazi di agibilità» (p. 25), da schierare e opporre come alternativa all’ossessione identitaria che infiamma nuovi nazionalismi e “populismi”.