Da oltre trent'anni, dalle prime avvisaglie
della crisi del comunismo, si tiene in Italia una "revisione" della storia dell'arte del Novecento che potrebbe finalmente
prendere per le corna certi temi interni alla più
ampia questione storica della mancata riflessione e discussione postbellica che avrebbe dovuto elaborare le ragioni che resero possibile la
vicenda politica del fascismo, per liberarsene
definitivamente, storia che invece continua ad
avvelenare gli animi.
In particolare dal 1944 e per poco più di un decennio si svolse un dibattito importante sull'etica e poetiche dell'arte che, a ben vedere, avvenne per lo più a sinistra fra tradizionalisti e
modernisti del realismo (quindi non la solita
querelle fra astrattisti e realisti, che durò pochi
anni). Ciò che non è stato abbastanza preso in
esame, ma ha avuto effetti di lungo periodo, è
proprio l'esistenza di un diverso modo di interpretare l'idea di realismo, con divisioni ideologiche proprie della sinistra, culminate in
una forma di riflusso nelle scelte individuali
quando in molti fu chiaro che le ragioni della
politica stavano prevalendo su quelle dell'arte.
Lo studioso Alessandro Del Puppo ha riunito
nel libro Egemonia e consenso alcuni suoi saggi recenti che hanno appunto per filo conduttore "le ideologie visive nell'arte italiana del Novecento" e, in particolare, la divisione fra critici e artisti nei decenni centrali del secolo, vale
a dire dalla mostra dedicata al Tintoretto nel
1937 alle rassegne di Courbet e Picasso in Italia nel 1953-54 (con un sorprendente saggio
dove svela come Ignatio Silone, lo scrittore che
ha raccontato la vita dei cafoni abruzzesi in
Fontamara e che dalla Svizzera operò in una rete di solidarietà del Partito socialista tesa a far
emigrare in America molti invisi al regime, nel
1944 abbia plagiato per ragioni ideologiche
quasi integralmente il fondamentale saggio di
Clement Greenberg su Avanguardia e Kitsch uscito nel 1939 sulla rivista newyorkese «Partisan Review», mutandone il titolo nel più grottesco Modernità e pompierismo nell'arte).
In questo dibattito che si protrae anche nel dopoguerra Roberto Longhi fu una voce decisiva
fin dalla polemica "riflessa" sul piano storico
che sollevò — in Viatico per cinque secoli di pittura veneziana nel 1946 — con la stroncatura
del Tintoretto come pittore monumentale suo
malgrado affine ai gusti del regime e risucchiato
nel clima di «recrudescenza delle letture nazionaliste e imperiali» anche per il gran chiasso internazionale sollevato quell'anno dalla
mostra di Monaco sull'arte degenerata. Ora,
aggiunge Del Puppo, la mostra curata da Barbantini nel 1937 «appare invece come un'operazione interamente antiretorica e proprio per
questo, nonostante l'ufficialità dell'occasione,
blandamente di fronda». Eppure, nel 1946, cioè
neanche dieci anni dopo, il Tintoretto diventa
per Longhi una sorta di pittore che dipingeva
a secchiate di colore e che avrebbe potuto essere un retorico precursore di Sironi. Il giudizio, dunque, ha una origine squisitamente ideologica ma rientra nel percorso di "purificazione" che Longhi compie mentre il fascismo
sta cadendo, per liberarsi di certe ambiguità
che il cambio di prospettiva politica impone di
abbandonare per ritrovarsi, con raffinato escamotage, dalla parte giusta.
Del Puppo mantiene in tutto il libro il doppio
registro del presente storico che allunga le sue
ombre fino a recuperare certi fondamenti utili
a distanziarlo dal passato prossimo (così le eredità bizantine che ritornano paradossalmente, più in Burri che in Fontana; lo stesso
Burri riscoperto anche da Guttuso con un "omaggio" che Del Puppo scova ed è invece passato inosservato alla critica recente). Ma è in
particolare quando si occupa di Courbet che
l'autore ci fa capire come attorno al pittore che
militò nella Comune parigina si sia fondato,
quasi un secolo dopo la morte, un paradigma
"progressista" che però già nella mostra allestita nel 1954 da Germain Bazin per la Biennale di
Venezia— forse quella che, in piena Guerra Fredda, registra il crollo delle aspettative ideologiche — veniva messo in discussione. Nel 1951
Longhi aveva curato la grande ed epocale mostra sul Caravaggio, nel 1953 quella sui Pittori
della realtà in Lombardia; era forse inevitabile che ora Courbet autenticasse il corso storico
del realismo che al Merisi si voleva ricollegare.
Ma non per ragioni di "partito" per così dire, e
lo stesso Guttuso bacchettò Longhi scrivendo
che «continuava a scambiare per realismo il populismo dei pittocchetti del Seicento».
La mostra di Courbet suscitò un dibattitto ricchissimo, che oggi ci appare come una sorta di
conato delle speranze rivoluzionarie e degli
scetticismi degli stessi artisti verso l'arte sociale e politica. Ma diventa anche più evidente che
il realismo fu il terreno dove ebbe
luogo il vero confronto con la modernità da parte degli artisti italiani,
in un diapason di possibilità che va
da Guttuso all'astratto—concreto di
Venturi agli Ultimi naturalisti di Arcangeli. Se ancora Courthion collegava, come Longhi, Courbet a Caravaggio, la vera posta in gioco fu invece di
usare Courbet a sostegno del neorealismo postbellico. Guttuso, però, già
da anni combatteva la sua battaglia
per un realismo "postpicassiano" e, in
occasione della mostra bolognese dei
realisti nel 1948, era stato colpito dalla scomunica di Togliatti che accusava il gruppo di propone un'arte fatta
di cose orribili e "scarabocchi".
Ma nel 1953 Picasso espose a Roma
e a Milano e il fronte degli scomunicati ebbe in un certo senso la sua
rivincita. Fino a un certo punto,
però, amolti infatti fu chiaro che quello di Picasso era per il realismo di marca italiana più un requiem che una
consacrazione. Picasso scombinava
tutti gli schemi, e parlare di realismo
per lui poteva essere addirittura più
calzante che per Guttuso, ma certo la
sua idea di arte aveva quella "concretezza" di forma e materia governate dall'occhio
di Proteo, che mostrava come l'ideologia fosse
stata una parentesi (o una deriva) postbellica da
cui occorreva uscire per sempre.
Ma non si può dire che questo sia davvero accaduto, se l'Arte Povera una decina d'anni dopo ne fu invece il rigurgito tardivo, poi ha ancora una volta mostrando i propri limiti etici nel
solco dell'individualismo borghese.