Recensioni / Pier Vincenzo Mengaldo, I chiusi inchiostri

«A un uomo come Fortini si deve anzitutto di considerarlo sempre in vita». Nella ferma e stupefatta semplicità di questa asserzione possiamo ritrovare il senso di un intero percorso critico. E di una lunga fedeltà. Quella che Pier Vincenzo Mengaldo ha dedicato, nell’arco di più di quarant’anni, all’amico Franco Fortini. Adesso Quodlibet raccoglie in un unico prezioso volume intitolato I chiusi inchiostri tutti i saggi in questione, collocati lungo un periodo cronologico ampio, che si dipana fra il 1974 e il 2017. Il tutto è arricchito da una densa e analitica postfazione di Donatello Santarone, curatore del libro, che fa il punto sia sulle «armoniche critiche» dispiegate da Mengaldo in questi scritti, sia sullo stesso Fortini, ritratto in un profilo intellettuale esauriente e a tutto tondo.

Ma ritorniamo al punto iniziale: in che senso e perché un uomo come Fortini andrebbe considerato «sempre in vita»? Per rispondere a questa domanda bisogna partire da alcune fondamentali puntualizzazioni critiche di Mengaldo, che disegnano un Fortini permeato dalla dialettica tra effimero ed eterno, transeunte e durevole. Per Fortini i poeti e le loro opere sono innanzitutto delle precise individualità, per di più caratterizzate da un forte valore testimoniale. Ciò non significa certo che queste figure prescindano dal contesto storico e culturale in cui nascono e si sviluppano, ma piuttosto che intrattengono con quest’ultimo un rapporto non meccanico, alieno da qualsiasi riduzionismo sociologico. Per Fortini infatti «il divario fra programmi e attuazioni poetiche è costitutivo della poesia stessa». La grande arte borghese per lui avrà dunque un rapporto conflittuale e di tensione utopica con la realtà e la storia. La poesia è un «negativo fotografico» che giunge al vero per via di negazione. Fortini inoltre, anche allontanandosi da alcune posizioni del marxismo ufficiale, ha praticato con successo, ci spiega Mengaldo, una particolarissima «sociologia a freccia direzionale invertita, deducendo tendenze in atto nella società dal significato dell’opera e non viceversa». Ma questo è solo uno dei tanti «paradossi» che bisogna assumere per avvicinarsi a Fortini. Molti altri se ne distendono sotto l’occhio dell’attento lettore. Le opere letterarie, ad esempio, da una parte vanno comprese a partire dal rapporto che instaurano con tutto ciò che «opera non è» – col violento e caotico moto della storia –, dall’altro sono in fin dei conti irriducibili a tale moto e portatrici di una «assolutezza tragica» che confligge con l’esistente. Sono, per la precisione, «abbaglianti e insieme terribili epifanie tragiche». Questa tensione ravvisata da Mengaldo si riverbera di conseguenza anche sull’atto critico fortiniano, che vive di paradossi costitutivi. Per esempio quello che si instaura fra la visione della critica come arte della mediazione e il suo reale procedere, che invece le mediazioni brucia «nel cortocircuito e nel discontinuo concettuale». E ancora, in Fortini abbiamo da una parte la scelta della saggistica come genere del discorso «politico», che si costruisce fondamentalmente sulla mediazione antitragica della parola persuasiva – quasi a mo’ di «compenso», mi pare di poter dire, rispetto alla tragicità delle opere; dall’altra ci misuriamo con la cifra aforistica dello stile e del pensiero fortiniano che si estrinseca in quello che Mengaldo chiama l’«epigramma critico», ovvero il rapido giro di parole che delimita in modo caustico e folgorante il perimetro di una situazione poetica o di un ragionamento ideologico. Tali epigrammi, però – e qui i paradossi d’un tratto si raddoppiano – avrebbero una peculiare «funzione costruttiva» – Mengaldo parla addirittura di epigrammi «embricati» – visto che, insolitamente, vanno ad occupare le zone più marcate del discorso, tra anticipazioni e conclusioni. Ma proprio la centralità dell’elemento costruttivo rappresenta uno dei leitmotiv più pressanti dell’analisi critica condotta negli anni da Mengaldo. In questa centralità risiede, insieme alla cruciale tensione fra opera e mondo storico, il vero punto d’unione fra la poesia e la critica fortiniana, collocato giustamente da Mengaldo «in una zona che sta più in alto» di ogni corrispondenza biunivoca fra due universi che, pur implicandosi, restano distinti e autonomi. Mengaldo individua la quintessenza sia del poeta, sia del critico utilizzando la metafora ricorrente del «grande architetto», ovviamente dialettico. In campo poetico si insisterà allora su alcuni fattori decisivi come «l’uso logico-costruttivo della sintassi» o la metafora reiterata del «traliccio», di volta in volta «metrico» o «dell’anafora», oppure sul particolare tipo di collage poetico praticato da Fortini, che non è quello distruttivo di certe avanguardie, ma quello «costruttivistico». In campo teorico ai già citati epigrammi «embricati» si aggiungeranno le «strutture a fisarmonica» del discorso persuasivo, e i «mattoni» con cui si mettono a punto le analisi critiche, lette senza mezzi termini come «costruzioni» dialettiche.

Mengaldo ha dunque riconosciuto in modo netto la qualità dialettica della poesia di pensiero fortiniana – noto en passant che non a caso viene menzionato in un saggio il nome di Leopardi come sommo esempio di «vero poeta concettuale», al quale Fortini può essere accostato almeno per un tratto comune molto significativo, e ben caro a Mengaldo: l’estrema sobrietà nell’utilizzo di metafore e analogie. Tale qualità dialettica si estrinseca di nuovo in forme paradossali. Pensiamo ad esempio alla compresenza ossimorica nei suoi versi di sperimentazione e «classicismo». Questa sperimentazione viene praticata in modo del tutto originale dal poeta all’interno del perimetro delle forme tradizionali, «uscendone per rientrarvi». E qui Mengaldo suggella le sue indagini con una formulazione folgorante, anch’essa paradossale ed epigrammatica: «Anzi, l’ambiguità finale è tale che non sai più se sia più sperimentale la fuoruscita o il rientro». Fortini dunque come grande architetto dialettico delle forme poetiche. Addirittura incomprensibile a chi non voglia sostare con pazienza sotto «le volte» – ancora una metafora costruttiva – della sua opera in versi. Poeta dunque del durevole, il cui sforzo creativo appare tutto proteso verso la trasmissione ai posteri di strutture del poetare solide, quasi tangibili, nella loro concretezza lancinante. Ma, al tempo stesso, quella di Fortini vuole essere una limitata individualità poetica, ben cosciente del fatto che le strutture del pensiero in versi, per aver corso nel mondo e fra gli uomini, devono incarnarsi profondamente nella fragilità del soggetto poetante, il quale tenta continuamente di mediare la propria storia individuale «dal punto di vista della storia universale». Tra architetture eternizzanti di parole e caducità dell’individuo si gioca dunque la questione del tragico in Fortini, sospesa fra l’opera letteraria come «epifania tragica» e la storia umana come luogo in cui transitorio e utopia entrano in tensione, sempre secondo modi paradossali. «Con la storia, contro la storia», soleva ripetere Fortini. Ecco dunque perché un uomo come lui è da considerarsi «sempre in vita». Perché il poeta e la sua opera, il critico e il suo pensiero contengono al proprio interno quell’elemento vitale di tipo figurale che gli consente di proiettarsi oltre i limiti biologici dell’esistenza singolare verso il futuro di tutti. Potremmo sintetizzare con le parole finali del Faust di Goethe tradotte da Fortini, e da lui molto amate: «Ogni cosa che passa è solo una figura». È così che l’individuo poetico, senza smettere per un attimo di essere «cosa» effimera, diventa figura di altro. Forma di un diverso futuro, mai come oggi così necessario, dunque ancora possibile.