«Per queste cagioni gl’italiani di mondo, privi come sono di società, sentono più o meno ciascuno, ma tutti generalmente parlando, più degli stranieri, la vanità reale delle cose umane e della vita, e ne sono pienamente, più efficacemente e più praticamente persuasi, benché per ragione la conoscano, in generale, molto meno». Con queste parole, nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, Giacomo Leopardi individuava nell’assenza di società, cioè di un sistema di riferimento istituzionale forte e centralizzato, proprio degli altri stati moderni, la principale determinante dell’identità italiana. Da un punto di partenza molto simile si sono mossi gli otto autori raccolti attorno ad Antonio Montefusco per Italia senza nazione, uscito nell’estate appena trascorsa per i tipi di Quodlibet. Nella difficoltà oggettiva di definire qualcosa di sfuggente e artefatto come un’identità nazionale, i nove studiosi hanno provato a ragionare su alcuni aspetti caratteristici del discorso sull’italianità, in perenne tensione fra l’auto-percezione negativa e l’immagine positiva che racconta il Belpaese al di fuori dei confini nazionali. Dallo scontro fra questi due ordini di rappresentazione può scaturire qualche spunto di riflessione utile a capire qualcosa di più sull’Italia di oggi? La risposta sembra positiva, e il discorso sulla specificità italiana appare, nel libro curato da Montefusco, come un valido strumento di lavoro per chiunque voglia ragionare su un tema tanto più delicato in un’epoca di agguerrito sovranismo.
Il volume si inserisce in una collana, Materiali IT, nata presso l’editore maceratese con lo scopo di riflettere sul dibattito portato avanti dalla critica statunitense attorno al pensiero di alcuni grandi nomi della filosofia italiana contemporanea, da Mario Tronti a Giorgio Agamben. Il successo in ambito internazionale di simili pensatori ha portato alla nascita dell’etichetta Italian Theory, che allude a quella utilizzata per indicare l’impatto della filosofia francese post-strutturalista fuori dai confini nazionali (French Theory). Dalle scaturigini del dibattito d’oltreoceano, nel 2010 Roberto Esposito aveva tratto lo spunto per Pensiero vivente, un tentativo di ragionare dall’interno sulle peculiarità del pensiero italiano, partendo dal suo problematico rapporto con l’idea di nazione: «il carattere più intensamente geofilosofico della cultura italiana», scriveva allora, «sta in una terra che non coincide con la nazione e che anzi si costituisce, per una lunghissima fase, nella sua assenza». Tale «assenza» avrebbe indirizzato il pensiero italiano verso una «estroflessione», cioè una vocazione pratico-politica che ha caratteristiche precise: la connessione tra vita, politica e storia da un lato, e dall’altro l’esigenza imprescindibile di una genealogia, di una ricerca dell’origine perduta a cui rifarsi, per capire l’attualità.
Il libro a cura di Montefusco parte esattamente da questi due elementi per investigare il proprium della tradizione filosofica italiana; il risultato è una sorta di processo decostruttivo del concetto stesso di identità, che si muove lungo direttrici diverse cercando di applicare le categorie dell’Italian Thought a contesti di studio specifici. Sul versante più propriamente filosofico si muovono Dario Gentili ed Elettra Stimilli, che raffrontano l’Italian Theory con la sua analoga francese per «comprendere da quale tipo di bisogni o esigenze abbia avuto origine ed, eventualmente, quale operazione politica e culturale possa configurare» (p. 19), nella convinzione che le suggestioni americane possano servire a riflettere «sulle potenzialità e i limiti della diffusione di alcune linee della filosofia italiana» (p. 23). Una filosofia che si distingue appunto per la sua estroflessione: se le filosofie francese e tedesca, nella seconda metà del Novecento, hanno virato verso percorsi di indagine autoreferenziali, mollando la presa diretta sul reale, essa è invece rimasta «intrecciata con la storia e con la politica» (p. 23). In alcuni suoi rappresentanti, come Mario Tronti, Giorgio Agamben o lo stesso Esposito, si è configurata come un pensiero di resistenza, che non smette di cercare spazi di conflitto e agibilità politica per contrastare la tendenza del capitalismo a depotenziare qualsiasi forma di antagonismo rendendola funzionale a se stesso. Per una genealogia dell’Italian Thought bisogna partire, anche secondo Gentili e Stimilli, da un dato: da Dante in avanti, il pensiero italiano si rivela attento alla politica in maniera radicale. Posta nel seno di questa tradizione, a parere dei due studiosi, l’Italian Theory si può delineare come una specificità italiana, al di là del nazionalismo politico e della brandizzazione del Made in Italy.
In una direzione opposta si muove il saggio di Emanuele Coccia, collocato strategicamente quasi ad apertura di volume, a creare un utile effetto di diffrazione sul tema. Per Coccia il dibattito sulla Theory italiana parte da un presupposto inconsistente, e cioè una «forma radicale di realismo geografico» (p. 31) in base alla quale il luogo di provenienza di un pensiero viene erroneamente concepito come una determinante dello stesso. Molto più produttivo sarebbe, a suo parere, rovesciare la questione: non è sensato ipotizzare che la provenienza geografica modifichi il pensiero di chi appartiene a una certa zona della Terra; piuttosto, ci si potrebbe chiedere «in che modo ogni conoscenza modifichi lo spazio e la sua esperienza, la trascenda, la renda incommensurabile dalla sua realtà “immediata”» (p. 32). Attraverso quali «effetti di nazionalità» un’idea o un pensiero vengono percepiti come intrinsecamente italiani? La domanda rimane inevasa. Per dimostrare la debolezza dell’Italian Theory, Coccia si rivolge invece, in una spirale analogica, alla teologia medievale. Nel suo tentativo di attribuire al mondo intero i caratteri propri della Terra Santa, la teologia medievale aveva secondo lui compiuto un’impresa di «anatopismo», una distorsione spaziale e storica della realtà geografica. L’Italian Theory proverebbe a fare qualcosa di analogo: ripercorrere la storia della filosofia e della letteratura italiane per individuarci un’Italia «non certo reale, ma immaginata e sognata, libresca ed erudita, che non ha nulla a che vedere né con la realtà del XXI secolo né con i saperi che essa pretende di rubricarvi» (p. 55). L’Italian Theory è quindi, per Coccia, un semplice «anatopismo accademico».
Questo anatopismo ha però un potenziale ermeneutico, che non smette di affascinare Roberto Esposito. Nel suo saggio, il filosofo prova a sottoporre a indagine la genealogia dell’Italian Thought attraversando le opere di alcuni dei suoi autori chiave: Dante, Machiavelli, Vico, Cuoco, De Sanctis, Leopardi. Lo fa in un duplice senso, oggettivo e soggettivo, poiché, come accennato, riconosce proprio nella genealogia, come «ricerca di un’origine introvabile là dove la si cerca» (p. 59), una delle caratteristiche precipue del pensiero italiano. Un pensiero che si configura inoltre come «anacronico»: alla ricerca di costanti universali, ma sempre coinvolto nel presente. Oltre alla vocazione genealogica, l’Italian Thought ha, secondo lui, un carattere eterodosso, ibrido e sperimentale, che si manifesta fin dall’uso del volgare in tempi in cui il latino era lingua egemonica e arriva all’età moderna. I pensatori chiamati in causa hanno uno stile distante da quello dei loro contemporanei europei; al rigore e alla sobrietà della prosa di questi ultimi, contrappongono una commistione di arti e linguaggi. «Nato al di fuori di un organismo statale», a differenza di tradizioni filosofiche sorte alla luce di un’istituzione politica già forte e consolidata, soprattutto «il pensiero italiano ha pensato, e pensa, lo stesso politico prima, fuori, e a volte perfino contro lo Stato» (p. 71).
Con l’obiettivo di dimostrare una genealogia medievale dell’eccezionalità italiana, Antonio Montefusco si mette esplicitamente sulla scia di Pensiero vivente, e imposta la sua riflessione a partire dall’epoca di Dante, vista come perno e momento di avvio di una tendenza italiana alla critica radicale delle istituzioni. Per Montefusco, la specificità italiana ha origine quando «una cultura volgare, parallela al latino dei professionisti del sapere, si affaccia sulla scena culturale» (p. 77). Si delinea così un profilo di intellettuale, di cui Dante sarà il più alto rappresentante, che ha delle caratteristiche precise: ha interessi in più campi del sapere; è sempre a contatto con le istituzioni e impegnato politicamente; non è legato a centri ufficiali del sapere come l’Università e la Chiesa. Questa fisionomia di letterato è legata a doppio filo alla storia istituzionale del periodo: si assiste in quegli anni alla creazione di uno spazio comunale denso, effervescente, fondato sul popolo. Nel XIII secolo tutti i Comuni attraversano una fase di grande trasformazione, quella delle cosiddette “Rivoluzioni di Popolo”: è un momento di ricambi nel ceto dirigente, e di forte conflittualità fra l’aristocrazia consolare e i nuovi volti della ricchezza cittadina; per la prima volta, questi ultimi si impongono per ottenere rappresentanza politica. La crescita dell’alfabetizzazione e una nuova consapevolezza dei propri bisogni politici favoriscono la nascita di una fazione di non-rappresentati dal comune podestarile che si autodefinisce Populus. A tal proposito, Montefusco si allaccia alle teorie sul populismo di Ernesto Laclau, che sottolinea come qualsiasi battaglia populista diventi tale quando si crea una dicotomia tra il popolo e le istituzioni: le singole istanze del popolo non hanno in sé valore anti-sistemico, ma sommate insieme propongono vere e proprie alternative alle istituzioni vigenti. Questo è più o meno quello che succede nelle Rivoluzioni di Popolo, che hanno un impatto culturale fortissimo e che vedono gli intellettuali schierati in prima linea, con il conseguente innesto della letteratura volgare all’interno dello spazio comunale: Il Popolo, gruppo eterogeneo che diventa “insieme” grazie all’esigenza di riconoscimento politico, sacralizza lo spazio comunale e aderisce alle istituzioni di rappresentanza con grandissima partecipazione. Molti intellettuali sposano la causa con ardore, in un intreccio inscindibile fra letteratura e politica. Secondo Montefusco, Dante è al contempo il più grande interprete e il più grande sovvertitore della tradizione popolare, perché nel seno di quella tradizione si fa portavoce di un pensiero estremamente critico sulle istituzioni. Su questa base, ipotizza un rapporto di filiazione fra questa linea della nostra tradizione e la letteratura del “ritorno al reale” descritta da Wu Ming 1 nel celebre saggio New Italian Epic. Dante sarebbe insomma il primo autore di una “Old Italian Epic” a cui si riallacciano i narratori degli anni Zero che fanno parte della «nebulosa» individuata da Wu Ming. Le ragioni per cui Montefusco ipotizza la derivazione sono le seguenti: innanzitutto, la Commedia, come i romanzi di inizio millennio, forza i generi letterari e si avventura in territori prima inesplorati di sperimentazione linguistica e stilistica; in secondo luogo, offre un punto di vista molteplice, e presenta un io narrante sovraccarico che la rende ideologicamente più vicina a opere come Gomorra di Saviano o Petrolio di Pasolini che alla Recherche proustiana; vede coesistere una complessità teologica e narrativa inaudite e un’attitudine genuinamente “pop”; infine, con la collocazione del racconto circa 15 anni prima del proprio tempo, costruisce quella che si potrebbe definire una «alternate history fiction». Tre sono le «proiezioni interpretative» che Montefusco propone al lettore: la prima riguarda il rapporto della letteratura con le istituzioni, che è, fin dalle origini, attivo e volto a porre in discussione la legittimità del potere; la seconda il legame con la tradizione popolare, che crea continuità fra Medioevo e prima Età Moderna, fra Dante e Machiavelli; la terza concerne la tesi di Asor Rosa sul populismo come figlio dell’arretratezza della cultura italiana post-risorgimentale, che va rovesciata, riconoscendo una «consustanzialità fra populismo, letteratura italiana e Italian Thought, definitasi nell’età di Dante e protratta nella modernità» (p. 94).
Stefano Jossa impernia l’indagine sull’identità italiana attorno ai significati della parola «resistenza», uno specchio, secondo lui, «della polisemia strutturale della cultura italiana» (p. 100). Il punto di partenza è costituito, ancora una volta, dalle riflessioni di Esposito sullo spirito di resistenza e antagonismo allo Stato che caratterizzerebbe la filosofia italiana. La questione ruota, secondo Jossa, attorno all’ambiguità di tale vocazione: «si tratta di una resistenza allo Stato da intendere come ribellione al potere o sussunzione di una dimensione dialettica nei confronti della sua autorità?» (p. 101). Per rispondere all’interrogativo, propone una esplorazione genealogica e archeologica della storia del termine e dei suoi usi in Italia, con l’obiettivo di verificare quali siano le costanti e le varianti di un lungo percorso. Lo spunto iniziale è un caso esemplare del 2002: si tratta del discorso di Francesco Saverio Borrelli, procuratore generale presso la Corte di Appello di Milano, contro le riforme proposte dal governo Berlusconi, che prevedono una riduzione dell’autonomia della magistratura. In linea teorica, l’ambivalenza del termine resistenza è, in questo caso, massima: si potrebbe attribuire a Borrelli lo sforzo di opporsi a un’ingiusta ingerenza del potere politico nel potere giudiziario (valenza progressista) o di fare opposizione al nuovo che avanza (valenza reazionaria). Jossa crea una lunga lista di esempi analoghi, non sempre messi a fuoco con la stessa efficacia, che attraversano la storia della penisola, dal Medioevo alla crisi del 2008, passando per Caporetto e la guerra di Liberazione. Se in Resistere non serve a niente Walter Siti dà al vocabolo un significato di rinuncia, per il Pietro Ingrao di Indignarsi non basta è una forma di opposizione al male sociale e un veicolo di cambiamento, il fondamento di una comunità politica. Il «diritto alla resistenza» doveva essere tutelato, nei piani dei Padri costituenti come Pietro Dossetti e Mario Cevolotto, dalla Costituzione stessa, «quando i pubblici poteri violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla costituzione» (pp. 108-109). La disposizione viene però respinta con voto di repubblicani, liberali e democristiani perché la parola suona troppo simile a “insurrezione” e “insubordinazione” per essere legittimata nel dettato costituzionale. Norberto Bobbio, nel 1966, parlerà di una «Resistenza incompiuta», perché l’anelito al miglioramento futuro, per sua natura, non può essere soddisfatto del tutto. Traspone insomma il termine su un piano simbolico, di impegno per l’avvenire, proprio come David Maria Turoldo, che ne fa un monito etico e politico: «Non tradire più l’uomo». Nel Medioevo, resistenza poteva significare tanto ribellione alla volontà di Dio quanto opposizione a un’autorità repressiva: Jossa trova due esempi contrapposti in Caterina da Siena e nel francescano Angelo Clareno. L’ambiguità continua lungo la prima età Moderna, conservandosi fino al Risorgimento. “Resistenza” è sempre un termine agonistico che allude a un conflitto e si colloca in un orizzonte diviso, in cui la storia è il terreno di uno scontro di forze. Jossa lo sceglie come specchio dell’identità, come emersione della soggettività contro il flusso della storia, tanto in senso reazionario quanto rivoluzionario. Resistenza è per lui una forma di opposizione affinché il discorso storico non si appiattisca su un solo punto di vista, apertura, «campo della contesa e dell’alterità» (p. 118). Come «energia vitalistica» che reagisce all’inerzia culturale, la resistenza è, secondo Jossa, incarnazione di un certo modo italiano di opporsi alla modernità facendone pienamente parte.
Un esempio perfetto di opposizione dialettica fra Storia e soggettività è contenuto nel saggio di Luca Salza, dedicato all’emersione, nella Grande Guerra, di Un’Italia minore. Tuttavia, nella diserzione di tanti soldati italiani a Caporetto, che è il centro della sua disamina, Salza non vede l’espressione di una Resistenza. Caporetto non è per lui la manifestazione di una volontà costruttrice, ma una «festa» nel senso che attribuisce al termine Furio Jesi, cioè un evento che interrompe la storia. Caporetto vede l’insorgenza di un non-popolo che non si riconosce in un progetto, tanto meno in un progetto per il futuro, e perciò rappresenta una differenza rispetto alle categorie classiche della politica, tra le quali quella di Resistenza. Caporetto è una rottura improvvisa del dettato storico che non genera niente; non porta alla rivoluzione, è una rivolta priva di effetti duraturi. Vi si manifesta una plebe che rifiuta di farsi popolo, e tale manifestazione è spaventosamente pericolosa per la costruzione della “comunità immaginata” italiana; per questo motivo, Caporetto è un tabù nella storia dell’identità del Paese. Salza invita invece a guardare a Caporetto, a quella moltitudine che «esce dal tempo ordinato dai governanti» (p. 130) e fugge dal destino che la classe dirigente aveva scelto per lei, come a una possibilità sempre aperta di un divenire minoritario, nel senso di Deleuze e Guattari. I disertori sono un popolo minore, che nel 1917 sceglie di rimanere tale perché non sente di avere uno Stato in cui riconoscersi, un’identità nazionale da difendere; sono, in questo senso, pre-nazionali. Ma sono anche un popolo di emigranti, dispersi per il mondo a costruire una comunità più ampia e deterritorializzata, e, in tal senso, post-nazionale. Scegliere Caporetto come simbolo identitario significa allora sottrarsi all’obbligo che la storia venga scritta dall’alto, votarsi a un’identità più aperta, inclusiva, costruita dal basso, che non pretenda di essere difesa in una trincea o da un porto chiuso.
D’altro canto, è chiaro, a questa altezza del volume, che l’identità italiana sia un caleidoscopio di narrazioni diverse, talvolta apparentemente inconciliabili. Lo scopo del saggio di Daniele Balicco è proprio quello di valutare i rapporti fra alcune immagini affastellate dell’italianità (l’Italia ideale di matrice umanistica-rinascimentale, l’Italia celebrata dall’immaginario straniero, l’Italia che si disperde nella diaspora nel mondo globalizzato, la storia dello Stato italiano) e dimostrare che la sovrapposizione delle quattro sia la cifra caratteristica della nostra modernità. Per cominciare, Balicco sceglie un episodio particolarmente significativo. All’apice della crisi economica internazionale, nel 2012, l’Italia si auto-percepisce come un paese in macerie, pur essendo la seconda potenza manifatturiera in Europa e la sesta al mondo; Gabriele Centazzo, capo di una fiorente impresa che produce cucine di design, scrive un manifesto politico Per un nuovo rinascimento italiano, nel quale esorta il Paese a risollevarsi dalla congiuntura economica riallacciandosi alla sua gloriosa tradizione. Centazzo si rifà però a un’idea precisa della tradizione italiana, cioè all’eredità rinascimentale, che costituisce, in Italia e all’estero, un’immagine distintiva dell’Italia come paese delle arti e della bellezza. È a quella tradizione, cioè a una tradizione umanistico-tecnica, che precede tanto la moderna specializzazione dei saperi quanto la forma statale, che molti intellettuali pensano come modello per “rifare l’Italia”. È la stagione rinascimentale, e non quella delle conquiste risorgimentali, a configurarsi come vessillo dell’immaginario internazionale riguardo al nostro Paese. «L’Italia, come entità ideale,» – commenta Balicco – «ha avuto, e continua ad avere, una vita indipendente dalla storia moderna del suo farsi Stato» (p. 149). Questa narrazione pre-moderna ha delle cause recenti e delle implicazioni precise nella fisionomia economica del paese. Se infatti il PCI del Dopoguerra si collocava idealmente nel solco del Risorgimento, l’Italia del boom economico degli anni Sessanta vede, oltre alla nascita dei movimenti di contestazione di massa destinati alla sconfitta nel decennio successivo, l’emersione del mito del Rinascimento, di cui la manifattura italiana si considera la diretta erede. Da questo momento in poi, inizia il percorso di affermazione, sul mercato mondiale, di una nicchia merceologica il cui nome è sinonimo di qualità e buon gusto: il Made in Italy. A partire dalla fine del XX secolo si viene a creare un immaginario italiano strettamente legato ai beni prodotti in Italia, che appaiono come un’emanazione diretta della gloriosa tradizione rinascimentale, che sopravvive proprio nel godimento di quegli stessi beni (cfr. p. 148). Il successo di alcuni comparti della nostra produzione (in modo particolare delle “quattro a”: alimentazione, abbigliamento, arredamento, automazione) sulla scena internazionale e la “brandizzazione” dell’identità italiana (Made in Italy) ci pongono alcuni interrogativi. Balicco ne elenca alcuni, che aprono a future piste di indagine: il Made in Italy può essere letto come una compensazione simbolica delle mancate riforme degli anni Sessanta e Settanta? Come lavorare sulla conflittualità fra l’auto-percezione dell’Italia come terra di ritardo economico e culturale, la fama internazionale della sua modernità seducente, e i dati statistici che mostrano la nostra economia più al sicuro di quanto faccia pensare la lettura dominante nei media nazionali? Balicco ritiene si debba partire da un fatto: «la produzione italiana contemporanea è riuscita ad esprimere una contro-egemonia culturale colonizzando anzitutto le forme elementari della vita quotidiana: mangiare, vestirsi, abitare» (p. 153); è riuscita dunque a imporre, in un mercato egemonizzato dal modello americano, un’idea alternativa di «modernità godibile», che sfugge alle standardizzazioni pur essendo di massa. Questo dato va interpretato oggi con un’analisi capace di intrecciare cognizione storica e consapevolezza estetica, per restituire una rappresentazione dell’Italia degli ultimi sessant’anni meno discontinua e lacerata.
L’invito a rileggere con occhi diversi la storia contemporanea viene raccolto nel saggio successivo da Alessandro Casellato, che trae spunto dalle riflessioni di Balicco sull’italianismo. Anche Casellato rifiuta, come Balicco, l’interpretazione più consolidata degli anni Ottanta come decennio di svolta, che chiude il ciclo storico aperto con la Liberazione e prepara alla crisi della prima Repubblica. In linea con una serie di studi recenti, ritiene più sensato guardare invece alla fine degli anni Settanta e all’affermazione delle politiche neoliberiste, al crollo dei partiti di massa e allo sgretolamento del welfare come principali motori di un ciclo storico conclusosi con la crisi del 2008, restituendo un’immagine meno frammentata della fine del XX secolo. Se a partire dagli anni Settanta la cultura italiana inizia a costruire una sorta di contro-egemonia culturale che nel mercato la farà distinguere tramite l’etichetta Made in Italy, la nascita in quegli stessi anni della microstoria e della storia orale possono essere lette come innovazioni e specificità italiane in campo storiografico. Casellato vuole insomma utilizzare il filtro dell’Italian Thought per guardare alle opere di Carlo Ginzburg, Giovanni Levi, Luisa Passerini e Alessandro Portelli. Esse sono forse il contributo più significativo che l’Italia ha dato al dibattito storiografico internazionale, rappresentano il brand storiografico più riconosciuto all’estero. Le accomuna al Made in Italy una certa cura per la «dimensione artigianale» del mestiere di storico e un’attenzione anche estetica alle forme dell’espressione. Inoltre, le loro opere sono senza dubbio figlie della crisi politica post-sessantottina, e rispondono alla «necessità di capire la società per com’è e non per come dovrebbe essere» (cfr. p. 162). La particolarità dell’oral history all’italiana sta nel saper vagliare con cura ogni singola intervista, prestando attenzione anche alle peculiarità della forma espressiva, ai silenzi, alle storture del ricordo, non limitandosi a valutare l’attendibilità documentaria delle testimonianze. Sono solo queste caratteristiche a consentirle di comprendere la percezione collettiva dei fatti al di là del loro effettivo svolgimento. Interessante, nel saggio di Casellato, la ricostruzione del profilo umano degli storici orali: non appartengono all’alta borghesia, hanno estrazioni sociali molto varie, sono talvolta i primi della loro famiglia a godere del diritto allo studio. Hanno vissuto la stagione dell’attivismo politico spinti dal desiderio di «restituire alla comunità le opportunità che hanno avuto» e hanno assistito alla sconfitta del progetto rivoluzionario degli anni Settanta; perciò «molti di loro trovano nella ricerca storica una compensazione, o una strada per proseguire con altri mezzi un percorso che era stato avviato all’insegna della militanza» (p. 171). Il pezzo si conclude con le domande che il metodo storiografico deve porsi nel XXI secolo, messo a confronto con i nuovi strumenti tecnologici e le sfide di un sempre più delicato equilibrio fra locale e globale.
Chiude il volume una seconda meta-riflessione sulla specificità italiana, che in questo caso vede al centro la critica letteraria. Nel compiere la sua disamina, Maria Cristina Storini parte da un saggio di Cesare Segre del 1993, in cui il critico tracciava un bilancio della crisi della critica letteraria in Italia e si interrogava sull’insuccesso di alcune tendenze dominanti all’estero (decostruzionismo, neoermeneutica, critica reader-oriented), che troppo poco concedevano all’indiscusso primato del testo e dell’analisi testuale della nostra tradizione. Segre difendeva come unica via perseguibile quella della filologia, la sola disciplina capace di mettere in luce ogni oscurità testuale e concentrarsi sulla natura linguistica e comunicativa dell’opera letteraria. Dal discorso di Segre, Storini vuole estrapolare alcuni punti salienti del dibattito teorico italiano: la centralità del metodo filologico, la tendenza alla ricusazione di modelli stranieri, la marginalizzazione dell’extratestualità e dell’extratesto, la sfiducia nei confronti dell’astrattismo della teoria nel suo insieme. Secondo la studiosa, Segre non riusciva a capire l’importanza che acquisisce, in questi approcci, la valorizzazone della differenza e dell’alterità. Anche lo studio dell’intertestualità, in Italia, è rimasto ancorato all’indagine sulle fonti, in sintonia con l’approccio filologico e distante da eccessi teorici. Nella seconda parte del saggio, Storini procede a una campionatura di punti nodali del dibattito teorico dell’ultimo decennio. Un periodo caratterizzato da una progressiva perdita di incisività della critica letteraria nel dibattito culturale e dalla contemporanea riscoperta degli strumenti narrativi, ermeneutici e metaforici da parte di settori disciplinari distanti dalle HumanitiesNew Italian Epic per ipotizzare delle linee da seguire per la critica contemporanea. A interessarla maggiormente è l’utilizzo di una «prospettiva obliqua», che consenta di guardare alla complessità del presente dall’interno, evitando tanto il relativismo della frammentazione postmoderna quanto la pretesa di sistematicità di un tradizionale sguardo “dall’alto”. Storini pensa che dai presupposti che hanno generato il New Italian Epic e dalla lezione data dalla critica dei gender studies possa discendere una prassi di indagine testuale che, consapevole della parzialità della propria prospettiva, generi un sapere «situato» che valuti l’importanza delle differenze, e che si muova con consapevolezza «spaziale» nel contesto storico (cfr. p. 194).
Dalla temperie culturale della Firenze trecentesca al cultural turn e alle sue possibili implicazioni nella critica letteraria, il volume curato da Montefusco raccoglie brandelli identitari lungo un percorso che si estende ben al di fuori dai confini nazionali, tanto nello spazio quanto nel tempo. Nel suo sforzo di indagare quel «sistema simbolico in tensione» che è l’Italian Thought, il libro è mosso da una spinta centrifuga; appare tuttavia sorprendentemente coeso, come se le voci degli studiosi interpellati si alternassero a canone. L’insieme è dunque armonioso, e tanto più interessante quanto più sono gli interrogativi che rimangono irrisolti. Si aprono così nuove piste, nuove occasioni di dibattito all’italiana, «cioè in senso ospitale e plurilingue» (p. 14).