Per quanto del XX secolo abbia
vissuto un’età troppo breve
— gli anni compresi tra il 1909 e
il 1943 –, è indubbio che Simone
Weil sia riuscita più di altri a coglierne l’essenza profonda, attraversandone con lucidità e sofferenza le fasi più tragiche. La radicalità
del suo pensiero, tuttavia, non la
àncora all’epoca in cui è vissuta ma
le consente di porsi ancora oggi
come interlocutrice preziosa per
chiunque voglia pensare la condizione esistenziale dell’uomo, nella
quale la “sventura non viene mai
meno”. Pensatrice straordinaria, e
dalla vita altrettanto straordinaria: studio intenso e insegnamento
costantemente, impegno sociale e
politico, e un duro lavoro fisico, come operaia e
come contadina. “Una
personalità fuori del
comune (…) tanto notevole per i doni intellettuali quanto anomala
nelle pratiche di vita”,
come scrive Giancarlo
Gaeta, ella si presenta a
noi nella purezza della
sua condizione di donna fragile che ha vissuto
fino in fondo la tragedia
del suo tempo, sollevandosene al
di sopra grazie alle risorse della sua
mente e del suo animo generoso.
La forza che si è abbattuta su di lei,
e sul mondo intero, negli anni dei
totalitarismi e della guerra, non è
riuscita a trascinarla con sé, dandole anzi l’occasione per affermare
una delle tesi fondamentali del suo
pensiero filosofico: l’idea cioè che
la necessità e il bene siano tra loro
contrapposti e separati da un’abissale distanza, così come lo sono
la forza e l’amore. Una distanza
che non rende però impossibile il
bene, ma lo realizza proprio a partire dalla consapevolezza che “nel
mondo non c’è altra forza che la
forza”.
Se quest’autrice straordinaria
può continuare a parlarci – e anzi,
può parlarci oggi più e meglio di
ieri – è grazie al fatto che sguardi e mani pietosi, primi tra tutti
quelli di Albert Camus, hanno
avuto attenzione per il suo pensiero, prendendosi cura dei preziosi
frammenti nei quali questo è stato
tradotto in parole. E tra coloro che
hanno dedicato costantemente
tempo ed energie al pensiero weiliano spicca senza dubbio Giancarlo Gaeta, instancabile curatore e
traduttore delle opere di Simone,
curatore tra le altre cose di un’edizione definitiva dei Quaderni,
pubblicata in Italia ancora prima
che ciò avvenisse in Francia nella
collezione delle Oeuvres complètes.
Di questo lavoro intenso e continuo è testimonianza il volume
nel quale Gaeta ha da poco raccolto molti dei suoi saggi weiliani,
i quali permettono di avvicinarsi
al pensiero dell’autrice francese
attraverso uno sguardo pronto a
coglierne sia le dimensioni più
profonde e persistenti, sia le evoluzioni e le sfumature. I saggi, usciti
originariamente come contributi
all’interno dei vari volumi curati
da Gaeta soprattutto per l’editore
Adelphi – spesso in collaborazione con Maria Concetta Sala, altra
instancabile ed appassionata curatrice delle opere weiliane (è appena uscito a sua cura, sempre per
Adelphi, L’arte della matematica,
nel quale è stata raccolta una selezione di lettere scambiate col fratello André) – sono ora ordinati
secondo la cronologia delle opere
commentate e dunque permettono
di seguire passo passo un itinerario
che è fedele al percorso esistenziale
dell’attrice: dalle Lezioni di filosofia tenute a Roanne nel 1933-34
agli scritti londinesi degli ultimi
mesi di vita si dipana così una vicenda intellettuale dall’intensità
incredibile e quasi eroica, i cui
frutti si sono potuti conoscere soltanto dopo la prematura scomparsa di lei.
Nel seguire insieme a
Gaeta questo itinerario
appaiono evidenti le
convinzioni che hanno
guidato il lavoro dello
studioso fiorentino, a
cominciare da quella
relativa all’intrinseca
unitarietà della produzione weiliana, a fronte
della sua estrinseca e
apparente frammentarietà. Emergono così una costante
attenzione per il quadro storico,
ideologico e lato sensu intellettuale nel quale il pensiero di Simone
Weil è venuto a maturare; la sottolineatura della sua originalità
rispetto agli schemi nei quali esso
viene talvolta incasellato (in particolare, con riguardo al platonismo
cristiano, ma anche con riguardo
in generale alle correnti filosofiche
del Novecento); l’insistenza sulla
singolarità di una ricerca religiosa
nutrita di suggestioni filosofiche,
tesi storiografiche, scelte ermeneutiche originalissime (“riteneva di
poter leggere il Vangelo alla luce
della poesia e del pensiero greco
piuttosto che della Bibbia ebraica”,
nella radicata convinzione che la
Grecia antica fosse la “principale
depositaria del germe della vocazione spirituale dell’Occidente”);
il richiamo, infine, agli interrogativi weiliani che continuano a
risuonare come necessari, non in
nome di una superficiale e scontata attualità, ma piuttosto perché
aderenti alle strutture fondamentali dell’esistenza umana in società, governata oggi e sempre dagli
stessi meccanismi di oppressione
che Weil era riuscita tanto acutamente a individuare e sezionare
(quasi con freddezza analitica, si
potrebbe dire, se una tale affermazione non suonasse del tutto
fuorviante rispetto alla appassionata prosa weiliana). Ed è proprio
quest’ultimo punto a portare Gaeta a rammaricarsi del fatto che le
riflessioni di Simone Weil “siano
rimaste fin qui del tutto inutilizzate, mai seriamente prese in considerazione e discusse”, nonostante
la diffusione delle opere di leisia
“grandemente cresciuta” (anche e
soprattutto grazie al lavoro di Gaeta, possiamo aggiungere). Non si è
imposta, infatti, “la consapevolezza dell’importanza che le esigenze
morali, spirituali e politiche del
suo pensiero rappresenterebbero
per il nostro tempo se soltanto
fossero prese seriamente in considerazione”.
Sollecitazione, quest’ultima,
cruciale per la critica weiliana,
spesso impegnata a cercare nelle
ricche pagine di Simone risposte
per l’oggi, nella piena e giustificata
convinzione che esse siano fonte
inesauribile di stimoli e suggestioni. Ma forse una risposta può
essere data proprio a partire dalla
constatazione che una pensatrice come Weil è preziosa perché
inattuale, “impolitica” secondo
Roberto Esposito; estranea a ogni
tradizione, sfuggente rispetto alle
categorie con le quali siamo abituati a leggere la storia, la politica,
la società con le loro determinazioni. E anzi, l’unico modo per “prendere sul serio” Simone Weil – il che
è possibile se si assume, come dice
Gaeta, “la distanza di un confronto
problematico” rispetto al suo pensiero –, è quello di cogliere quanto, di questo pensiero, stride con le
nostre convinzioni più radicate, ad
esempio con riguardo al rapporto
tra religione e politica o tra la religione e la scienza, o con riguardo ai
rapporti tra diritti e doveri. Perché
se è vero “che non c’è nulla che allontani da un confronto reale con
il pensiero di Simone Weil quanto
il tentativo di ricondurlo all’attualità”, è altrettanto vero che proprio
il fatto di trattarsi di un pensiero
“avulso dalle questioni all’ordine
del giorno” lo rende ineludibile
nella forma di una “pura interrogazione sul presente” per chiunque voglia affrontare alla radice i
problemi persistenti dell’esistenza
individuale e collettiva; problemi
ai quali, come ricorda Gaeta, “siamo continuamente esposti a causa
della fragilità della nostra carne,
della vulnerabilità della nostra anima, dell’esposizione al caso della
nostra persona sociale”. Leggere Simone Weil, in altre parole, è una lezione di metodo, ma è anche e soprattutto un invito agli uomini di
oggi affinché prestino attenzione
a questa inattuale contemporanea
che non smette di sorprenderci
con il suo sguardo puro rivolto alla
verità e alla bellezza.