Recensioni / Una fogliata di libri - Intelletto d’amore

A chi non piacciono le storie di fantasmi? E chi non subisce il fascino delle storie d’amore? Ecco un libro che tratta entrambi gli argomenti, dispiegando con felice acribia filologica un commento alla seconda potenza, che, a partire da un famoso poema di Guido Cavalcanti, si irradia lambendo studi averroisti, letture di Aristotele, trattati medicali. Insomma, partendo dall’esegesi di un poema stilnovista del XIII secolo ci spingiamo fino al cuore della speculazione filosofica dell’aristotelismo greco-arabo. Ciò che è in gioco in questo viaggio è il concetto di “intelletto d’amore”: il movimento del pensiero. Che avventura. Seguiamo qui allora gli scavi archeologici di due Indiana Jones del pensiero, Giorgio Agamben e Jean-Baptiste Brenet. Agamben riprende e amplia nel suo saggio, intitolato Intelletto d’amore, gli argomenti che aveva già trattato magistralmente in Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale (1977), forse ancora oggi il suo libro più affascinante, felice (almeno per chi scrive). Rispetto a una vulgata che si trascina da secoli e che vorrebbe pensiero ed esperienza amorosa separati, Agamben, glossando due versi di Guido (Donna me prega), innesca un détour interpretativo che giunge invece a sostenere il contrario: l’amore è quell’accidente che mette ferocemente in una posizione tensiva intelletto, immaginazione, desiderio. Da qui si attiva una riflessione sulla funzione mediatrice dell'immagine: oggetto e soggetto della passione amorosa. L’esperienza amorosa non è altro che immoderata cogitatio (così la chiamava Andrea Cappellano), fantasma interiore che si materializza per un istante in alcuni luoghi topici della poesia medievale: fontane, specchi, la fonte del Roman de la rose. Amore significa insomma amore per un'immagine. E l’immaginazione è il luogo del pensiero in atto. Questa parata di fantasmi, spiritelli, diventa insomma “tramite” del pensiero. Ma questo movimento non deve essere inteso “metaforicamente”, aggiunge il secondo archeologo, Jean-Baptiste Brenet. Quella che emerge è una vera e propria “fisica del pensiero” che lo studioso sviluppa glossando pagine di Averroè, il suo corpo a corpo con Aristotele. Gli esempi che porta per designare questo movimento sono eminentemente concreti: lo considera un cinematismo ad esempio, oppure qualcosa che ricorda il principio di congelamento dell’acqua. O, ancora, qualcosa di simile al “notes magico”, lo strumento su cui riflette Freud per delineare l’apparato psichico in relazione a percezione e memoria. Il pensiero non migra, non si esporta, funziona un po’ così: tra ricettività continua di dati e insieme disponibilità illimitata. Una volta giunte al termine del loro tragitto, le immagini svaniscono, si cancellano. Il loro percorso è po’ simile a quello di un fuoco acceso da un piromane innamorato. Ne osserviamo l’attività, il percorso, fino al suo spegnimento.