Recensioni / Design fra concretezza e apertura visionaria

In un momento di estremi ripensamenti rispetto al modo in cui abitiamo le nostre case, le città e il pianeta, una riflessione su ciò che la cultura del progetto ha proposto nel passato prossimo non pare secondaria. Inoltre, nella distopia attuale si confrontano due condizioni immanenti del progetto, ovvero il bisogno di concretezza istantanea e quello di un'apertura visionaria verso il futuro: dimensioni spesso incompatibili ma entrambe, oggi, più urgenti che mai.
Simili pensieri toccano da vicino il mondo del design, dotato di un'elasticità che i tempi lunghi dell'architettura e dell'urbanistica spesso non consentono. Anche per questi motivi e allora consigliata la lettura di Contro l'oggetto, raccolta di conversazioni tra Emanuele Quinz (storico dell'arte e curatore) e una selezione di designer di diverse generazioni. Come suggerisce il titolo, il fio conduttore è un'attitudine condivisa da molti, negli ultimi cinquant'anni, verso una «sospensione deliberata della funzione strumentale» dell'oggetto di design, con la conseguente apertura a ruoli e compiti non scontati.
L'avanguardia italiana: Ugo La Pietra, Giovanni Anceschi, Gianni Pettena e Clino Trini Castelli aprono le danze, mostrando le commistioni tra arte, progetto e vita che hanno alimentato e seguito il design «radicale» italiano. Negli anni Sessanta si passò dall'oggetto al comportamento e al racconto, grazie a narrazioni iconografiche e testuali che indicavano come eludere il semplice consumo. Ma questo è solo l'incipit: l'approccio radicale nutrì infatti il design «concettuale» olandese degli anni Novanta, che a partire da alcuni collettivi (Droog Design) giunse a stabilizzarsi entro accademie divenute riferimento internazionale. Oppure il «Critical Design» sorto in Inghilterra nel 2000, per cui l'oggetto è forma di critica sociale e deve esplorare «la disfunzione per provocare delle deviazioni comportamentali, ad alto potenziale estetico».
Esempi concreti? La Chest of Drawer di Tejo Remy, presente nei maggiori musei di design, è un mobile-collage di tante cassettiere riciclate e perciò più familiari. La teiera a forma di teschio animale di Wieki Somers, in porcellana, pelliccia di topo muschiato e acciaio, si ispira ai ricettari romani e alle nature morte fiamminghe per evocare «orrore e delizia» nel «rituale borghese del tè». Helen Evans e Heiko Hansen costruiscono plastici in scala di centrali nucleari in fiamme e altre catastrofi.
Si insegue una definizione, ne escono cento. Utili? Domanda sbagliata. Valide anche domani? Difficile dirlo, mentre si parla di abbandonare le città e di plastificare le spiagge per sfuggire a un «oggetto» invisibile a forma di corona. Dolorosamente attuale è però la collezione intitolata «Design per personalità fragili in tempi ansiosi» di Dunne & Raby, del 2005, e ancor più Doopelgänger di Didier Faustino, una mascherina per due persone con un buco per baciarsi, del 2011. Al tempo era «inutile e paradossale», oggi pare la lugubre premonizione di un presente sospeso tra contatto e controllo.

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