Recensioni / E se Garboli legge Pascoli lo trova tragico e ridicolo

«Io spero che Dio ci sia e che ci si riveli l'un l'altro spogli della nostra mortalità e delle convenzioni e finzioni sociali. Allora, solo allora, vedremo quale abisso d'amore c'era e c'è nel mio cuore per voi due». Cosa c'è di più tragico, e insieme di più ridicolo, che una criptocitazione di San Paolo imperniata niente meno che sulla visione beatifica (I, Cor, 13, 12: «Videmus nunc per speculum et in cenigmate, tunc autem facie ad faciem») per rinfacciare ancora una volta a una sorella quanto strazio sia costato al fratello il matrimonio di lei? Tanto più se a scrivere è Giovanni Pascoli (lettera a Ida, 2 maggio 1896), e non una mistica toscana del Trecento. Nientemeno che l'universo intero squadernato nella sua verità ultima divina per far cornice a un piccolo dramma familiare. Lo smisurato e il minimo che cozzano senza pudore, senza veli, senza paura che non sia quella di sminuire una vicenda biografica negandole il privilegio della comparazione col più elevato degli abissi. È nel mistero in piena luce di questo tragico e di questo ridicolo che Cesare Garboli (1928-2004), straordinario interprete/persecutore di Molière, vuole immergere Malore nelle 500 pagine del suo Trenta poesie famigliari di Giovanni Pascoli, ripubblicato da Quodlibet con una bella anche se forse un po' troppo simpatetica prefazione di Emanuele Trevi.
La prima edizione (Mondadori, 1985) titolava diversamente: Giovanni Pascoli, Poesie famigliari. A cura di Cesare Garboli. Fattagli notare la sproporzione tra testo e commento, Garboli acconsentì nella seconda edizione a riconoscere che sì, il libro era suo, purché non lo si scambiasse per un romanzo, perché a lui interessava restituire, più che una poesia intesa come una mela ormai caduta dall'albero, il profilo di un uomo in carne e ossa, ovverosia ciò che in genere è sempre spiaciuto a tutti coloro che tollerano i piagnistei autobiografici di Pascoli solo in cambio della sua incredibile perizia artistica, nonché dell'influenza che ha esercitato su tanta poesia del Novecento.
Garboli prende un'altra strada, consueta tanto a lui quanto a chi conosce le sue opere: anteporre il creatore alla creatura, con un atteggiamento che si dovrebbe presumere di venerazione e invece non si può che definire di nuovo persecutorio ai limiti del sadismo. Al saggio iniziale dove viene esposto il nocciolo della sua visione di Pascoli (il vero trauma che lo perseguitò non fu la morte violenta del padre ma il crollo del «nido», il legame para-incestuoso con le sorelle Ida e Maria, determinatosi nel 1895 con il tradimento di Ida, la sorella bionda andata in sposa: da cui le due strade che Pascoli perseguirà dopo allora, la trasfigurazione del nido andato in pezzi e l'invenzione del poeta consolatore degli afflitti, poi redentore, poi vate di una riscossa socialnazionale dell'umile Italia che sfocia nell'elogio della guerra di Libia e fa di Pascoli, chiosa genialmente Garboli, il vero precursore di tanti aspetti del fascismo, assai più di D'Annunzio, che col fascismo ebbe rapporti truffaldini come con tutti gli altri anche se finì gabbato da chi aveva tentato di gabbare), fa seguito una lunghissima, esilarante cronologia da cui il personaggio Pascoli emerge come uno Zeno Cosini ancor più inverecondo o un Gonzalo Pirobutirro ancor più sconsolatamente rancido.
Solo a pagina 252, infine, si giunge al commento, strabordante anche qui rispetto ai testi, selezionati, con metodo peraltro spurio, mettendo insieme poesie e poesiole sparse raccolte con amorevole imperizia dalla sorella Maria dopo la morte del poeta, alle ultime due sezioni dei Canti di Castevecchio. Editi e inediti, capolavori e marginalia: vale tutto. Un commento, va detto, che da una parte è un capolavoro, dall'altra una lettura ingrata, giacché tutti gli strumenti della carpenteria filologica, cui Garboli si era proclamato infedele quanto all'arbitrarietà della scelta dei campioni, sono impiegati con una minuzia e un'insistenza che sconfinano nella monomania. Insistenza è qui forse la questione chiave. Non l'idea madre, di per sé non nuova se era già nota al recensore fin dai tempi innocenti del ginnasio; né le risultanze, sempre spettacolari, quando in modalità solare (la critica che punta il dito e dice: ecco), quando labirintica, tortuosa, sofistica, e la cui attendibilità scientifica è questione che va lasciata agli esperti. Accanimento, dissezione, disseccamento, immersione non simpatetica - perché il ribrezzo tiene almeno lo stesso posto dell'ammirazione. Giudizio irrefragabile, quasi da inferno dantesco, su ciò che Pascoli è stato come uomo; e insieme infinitamente trattenuto allo stato potenziale su ciò avrebbe potuto essere come poeta. Materia resinosa in cui si avanza a fatica, e si deve sentire la fatica. Perché il mistero non è tale se è di quelli che si sciolgono, e sta tutto in quella compresenza impossibile eppure reale di tragico e ridicolo (non comico: il vero comico, come Garboli sapeva meglio di ogni altro, risolve e in qualche modo redime). Perché tanta fatica spesa sopra un oggetto che non ci si può limitare ad ammirare? Perché questa interminabile autopsia su un'esistenza mancata eppure accaduta per davvero? E' noto ai lettori di Garboli il legame di seduzione, rivalità e carità pelosa che egli instaurava con gli autori da lui sovranamente eletti a padroni da servire. Qui non si può dire lo stesso, anche se c'è una somiglianza di famiglia. L'ubiquità con cui Garboli percorre l'intera opera di Pascoli mescola in tal misura simpatia e aggressività da fare di questo libro un unicum non solo nel suo canone, ma un po' in tutto il genere critico. Ha qualcosa del rituale, vagamente satanico, come di un Mefistofele che abbia potuto riprendersi il suo Faust di cui è stato ingiustamente defraudato dall'arbitrio divino. Non è una lettura da cui si esce soddisfatti, né è probabile che Garboli lo volesse. Un libro tanto più riuscito quanto più sembra aver mancato il suo scopo, la felicità del lettore. Più vicino di così a Pascoli, forse, non si poteva arrivare.