Recensioni / Ugo La Pietra: “Aiutiamo i territori a esaltare le differenze, senza coltivare nostalgie”

L’architetto, artista, designer, artigiano e musicista risponde da Verici, una frazione collinare di Casarza Ligure, a est di Genova, dove ha trascorso questi mesi di isolamento insieme alla moglie Aurelia, che è originaria di queste parti – del resto porta lo stesso nome dell’antica via consolare che congiunge la Liguria a Roma. È dunque un rifugio consueto per la coppia che normalmente risiede a Milano, a parte il lungo soggiorno estivo nell’isola siciliana di Filicudi.

La Liguria e la Sicilia evocano subito una delle tante sue ricerche e passioni, quella sulle produzioni regionali di ceramica.
Qui vicino a Verici non c’è solo Albisola, ma anche Lavagna e la sua celebre pietra nera, l’ardesia, diffusa in tutto il Levante ligure. Qualche anno or sono ho curato l’ecomuseo della Val Fontanabuona, dedicato proprio alla storia dell’estrazione di questo materiale che conoscono tutti grazie alla scuola.

Come ha trascorso questo periodo di isolamento?
Abbastanza bene perché qui siamo piuttosto sperduti e tanto per dirne una non abbiamo mai dovuto mettere la mascherina, mentre questa in città è uno strumento indispensabile di protezione. In più, stando in casa inoperoso, ho potuto lavorare alla mia prossima mostra che spero potrà essere inaugurata in ottobre a Palazzo Collicola di Spoleto, a cura di Marco Tonelli, e ho potuto scrivere un libro, Storie con artigiani, dove racconto i miei rapporti con tutti gli artigiani italiani che ho incontrato, da quelli delle ceramiche di Caltagirone a quelli dei mosaici di Spilimbergo in Friuli, un libro che altrimenti non avrei mai scritto.

Mi fa venire in mente un vecchio articolo di Gio Ponti, di cui lei è stato allievo ed è uno studioso, pubblicato sul Corriere della Sera in cui descriveva un giro d’Italia virtuale elencando in poche righe tutti i principali ceramisti della penisola. Pensa che le cosiddette aree interne possono essere considerate le riserve indiane dell’artigianato italiano?
In un certo senso direi di sì, anche se molto è cambiato da quando negli anni Ottanta ho iniziato a occuparmi di artigianato che in precedenza è sempre stato disprezzato dal mondo del design. Del resto i professori d’ornato nel frattempo sono spariti e la riforma della scuola Gelmini (2008-2011) ha chiuso gli istituti d’arte impedendo il già esiguo ricambio generazionale. Eppure resistono diverse riserve indiane come le chiami tu, anche vitali come a Caltagirone o a Vietri sul Mare. Il problema è che l’artigianato è tenuto in vita artificialmente quasi solo dal turismo che al contempo è ciò che lo massacra perché chi visita i negozi d’artigianato venendo dall’Australia si aspetta di trovare gli oggetti da cartolina, vuole cioè che gli oggetti corrispondano all’immagine che già avevano in mente prima di arrivare e così, mentre il turismo cresce continuamente, l’artigianato non solo non cresce, ma non si evolve nemmeno, fermo com’è alla sua immagine più stereotipata. Del resto questo accade anche per altri ambiti della nostra cultura, il turismo alimenta e al contempo distrugge le grandi città, conosciamo tutti i problemi dei musei con troppi visitatori. Credo invece che il turismo dovrebbe trovare un rapporto con il craft internazionale così sviluppato in Nord Europa, negli USA e in Giappone, un mercato dal quale ci siamo autoesclusi credendo solo nel design industriale. Così le arti applicate sono sparite e ci resta solo l’artigianato di lusso. Al contrario fino agli anni Quaranta e Cinquanta le aree artigianali erano presenti alle esposizioni della Triennale, c’erano i nostri produttori di ceramiche, di cristallo, di pizzo, il vetro di Murano ecc. Poi ci siamo allontanati da tutto questo col disegno industriale che pure ha avuto un grande favore internazionale, ma poi è entrato in crisi.

Ne suoi libri, specie nell’ultimo Argomenti per un dizionario di design, lei distingue fra impresa e industria, includendo l’artigianato nella prima categoria, perché?
Intorno al 2000 ho introdotto nelle Accademie di Belle Arti il dipartimento di Progettazione artistica per l’impresa, proprio per coltivare una categoria che non è né industria né design. L’impresa significa anche piccola produzione, ciò che oggi va per la maggiore cioè, oppure grandissima produzione come può esserlo un distretto provinciale o regionale o ancora enti come gli ospedali che sono stati trasformati in Aziende Sanitarie Locali, secondo uno spirito d’impresa, appunto. Ciò che credo che manchi a queste realtà però è un progetto e per questo ho fondato quel dipartimento che poi è stato introdotto in tutte le Accademie italiane.

Negli anni dell’architettura radicale però lei insieme con Ettore Sottsass e tutti gli altri fautori del “controdesign” era molto critico verso l’industria, o no?
Di quegli anni ho conservato la critica all’internazionalismo che oggi chiamiamo globalizzazione. Sono a favore della diversità così come lo erano i Superstudio nella loro ricerca sulla cultura materiale extraurbana La coscienza di Zeno, e credo sempre che sia necessaria un’alternativa alla cultura industriale. Oggi la globalizzazione distrugge il territorio attraverso le coltivazioni intensive soprattutto a causa del mercato cinese che compromette anche l’Africa e gli altri continenti attraverso le nuove vie della seta. Negli anni Sessanta e Settanta criticavamo la progettazione standardizzata per ogni posto del mondo, edifici tutti uguali al Cairo come a New York, in fondo il Monumento Continuo faceva ironia proprio su questa uniformità, mentre le diversità materiali e immateriali sono sempre il valore aggiunto dei territori. L’Italia poi è costituita fisicamente da tante difformità e dovremmo aiutare i diversi territori a esaltare queste differenze, senza coltivare nostalgie né tantomeno sogni autarchici antistorici. Per fare un solo esempio, dico sempre che la pizza non è made in Italy, ma made in Napoli.

Citando Superstudio non possiamo non ricordare la recente scomparsa dei suoi due fondatori, Cristiano Toraldo di Francia e Adolfo Natalini, con cui lei ha sempre mantenuto rapporti privati costanti.
Sì, è un momento molto triste, in particolare con Adolfo avevamo programmato una mostra insieme a Bologna… per anni ci siamo scritti lunghe lettere accompagnate da disegni, sempre con un tono scherzoso come il progetto di un libro dove volevamo raccogliere tutti gli aneddoti dell’architettura radicale dal titolo Tutti i nodi vengono al Pettena, nel senso di Gianni [sorride]. Dopo il Superstudio ho sempre ammirato lo sforzo solitario di Adolfo per entrare nella dimensione dell’abitare attraverso delle forme di colloquio con il contesto e quindi anche con la tradizione toscana ed emiliano-romagnola, le regioni dove ha lavorato di più, perché no? Anche io ho cercato di fare lo stesso alla mia maniera con i miei esperimenti con la ceramica siciliana. Le diversità sono tutte risorse del territorio, basterebbe che i professori portassero i loro studenti in giro per la città a visitare le botteghe dei pochi artigiani rimasti e quindi a riscoprire i materiali locali come la pietra leccese e mille altri, come vengono estratti, lavorati, venduti, utilizzati. Farebbero riaffiorare così un insieme di storie, tradizioni, usi che insegnano molto di più di una lezione ex cathedra o online.

E in tutto questo come vede la situazione della sua città, Milano, dopo la pandemia?
Milano ha vissuto ultimamente un’euforia bruciante, come già altre volte nella storia moderna, e come sempre l’euforia precede una catastrofe. Così come la Belle Époque ha preceduto la Grande guerra, la “Milano da bere” è venuta subito prima di Tangentopoli così la Milano dell’Expo, che avrebbe dovuto essere il volano d’Italia, ha preceduto il virus corona che l’ha colpita più duramente di tutti. Gli altri territori italiani hanno invece una dimensione esistenziale diversa che li ha evidentemente protetti. Vedremo cosa cambierà, ora in molti si battono il petto rispetto al passato, promettono comportamenti più virtuosi, ma credo che poi una volta scampato il pericolo tutto ricomincerà come prima.