La raccolta di tutti gli scritti
fortiniani di Mengaldo non
è una semplice somma o solo una
meritoria messa a disposizione di
testi che oggi l'industria editoriale
condanna a vita effimera, ma costituisce, per effetto della costruzione, un'opera in certa misura nuova.
Il libro s'inserisce nel rinnovato
interesse sospinto dal centenario
della nascita del 2017, per quanto
il curatore, Donatello Santarone,
provenga da una sua
più lunga frequentazione: prima ha condotto
con Fortini due serie
di conversazioni radiofoniche, raccolte poi
in volume, quindi ha
riportato in libreria la
meditazione fortiniana sul viaggio in Cina
e da ultimo ha curato
la riedizione dei Poeti
del Novecento (Donzelli, 2017). Una laboriosa passione
che, prendendo qui avvio dai saggi di Mengaldo, giunge alla più
matura sistemazione nel ritratto
a
tutto tondo di Fortini collocato in
postazione.
La collazione di Chiusi inchiostri mostra in modo esemplare la
condizione costitutiva della critica
come collaborazione all'opera.
I
sedici scritti si dispongono in un
arco più che quatantennale, che
principia nel 1974 e prosegue oltre la morte del poeta fino al 2017,
cosicché, tra i tanti motivi che lo
rendono imprescindibile per Io
studio dell'opera e del profilo intellettuale di Fortini, va incluso
quanto la silloge rende meglio
ley;ibìle, essere cioè anche storia
di una profonda quanto discreta
amicizia intellettuale e umana.
Tale tensione affiora limpida già
nel titolo della nota introduttiva:
Ricordi di Franco Fortini. Solo un
lettore ignaro della sorveglianza di
Mengaldo (e Fortini) sul montaggio può sorprendersi dell'apparente incongruità.
Mi sembra che I chiusi inchiostri
debbano essere percorsi in due diversi modi: uno verticale e sincronico, l'altro orizzontale e diacronico. Nella seconda modalità gli
scritti di Mengaldo evidenziano
soprattutto la finezza nel mostrare le trasformazioni del lavoro di
Fortini, ovvero la costanza con cui
questi ha coltivato l'allarme del
presente.
Nella prima il lettore incontra
le pietre dure concretate dallo
sguardo profondo e simpatetico
del critico. Una origina senz'altro
dall'energia con cui Mengaldo, pur
movendo istituzionalmente dall'opera poetica, ha saputo assecondare il programmatico spiazzamento
di Fortini dalla poesia alla militanza politica, dalla critica letteraria
alla filosofia morale, dalla critica
sociale all'organizzazione culturale. Mengaldo mostra in modo definitivo come tali salti né costituiscano sommatorie riformistiche,
né siano anarchica distruzione dei
generi, ma muovano sempre da
un orizzonte di totalità in vista di
un'altra, possibile e superiore.
È
ciò che Mengaldo chiama dialettica. Per questo i suoi saggi includono sia l'opera poetica che quella
critica, mentre straordinariamente
vasta è l'escursione disciplinare dei
nomi incontrati, non solo una ricca messe di poeti e letterati della
letteratura occidentale da Lucrezio ai contemporanei e ai cinesi,
ma anche politici, filosofi, teologi
per tacere dí pittori, musicisti. Né
è infrequente che lo stesso Mengaldo prenda avvio o comunque
si riferisca al contesto
culturale, politico, editoriale con il preciso
intento di prender posizione.
Imprescindibile
è
inoltre la messa in rilievo dei tratti costitutivi
della poesia sintattica
e mentale di Fortini.
Splendido, tra gli altri,
campeggia nella raccolta Questo muro di
Fortini (1973). Mengaldo, documentando l'escursione
metrica, il grande compasso temporale e geografico nelle poesie di
Fortini, prova come esse procedano nei singoli testi ed entro la più
ampia unità di ciascuna raccolta
secondo necessità ora allegoriche
ora simboliche, entrambe concretizzazione testuale del medesimo
movimento dialettico che anima
l'insieme della sua ricerca e militanza intellettuale e infine sorregge la sua scrittura saggistica.
Mengaldo indica che l'opera
di Fortini passa a contrappello la
grande eredità borghese, tenendo
viva la spinta che da quello sguardo sulla morte proviene a un altro,
più umano mondo possibile.
E
davvero non si può fare a meno di
confrontare la natura e gli esiti del
rapporto Fortini-Mengaldo con
l'altra "lunga fedeltà" Montale
-
Contini, nella quale il medesimo
orrore mortuario si piega su se
stesso, non senza sospetto di snobismo e nostalgia. Se poi guardiamo allo sguardo prospettico (necessario, dice Mengaldo, in ogni
marxismo), questo non è di raccogliere le bandiere lasciate cadere,
bensì, con mossa radicale, di marcare la negazione, giusta la lezione
francofortese. E proprio per questo che Fortini è stato un maestro
dei movimenti neontarxisti degli
anni sessanta-settanta. Il confronto con queste pagine ci squaderna
come oggi siano venuti meno tanto quella cultura borghese ancora
consapevole della propria eredità,
quanto lui insieme di forze politiche, sociali, culturali che alludevano a una pratica anticapitalistica e
che perciò rendevano possibile la
"dialettica negativa" di minoranze
radicali.