Recensioni / Carlo Ginzburg e l’«affaire Sofri»

L’intricata vicenda giudiziaria che tra 1988 e 1997 ha visto protagonista, tra gli altri, il giornalista Adriano Sofri, ex leader di Lotta Continua, si lega alla fase più alta della stagione dei cosiddetti Anni di piombo, che con il suo corteo di corpi straziati e misteri ha tragicamente segnato le sorti dell’Italia repubblicana: la strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969; la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, illegalmente trattenuto per tre giorni presso la questura di Milano quindi precipitato da una finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi; l’assassinio, il 17 maggio 1972, dello stesso Calabresi, oggetto nei due anni precedenti di una violenta campagna colpevolista promossa da «Lotta Continua» (organo di stampa dell’omonima formazione), che ancora il giorno del delitto, lungi dal prenderne le distanze, titolerà: Ucciso Calabresi, il maggior responsabile dell’assassinio di Pinelli. Benché le prime indagini convergano, come prevedibile, su persone più o meno vicine a LC, anche questo omicidio resterà senza colpevole.

Sedici anni dopo, ormai arenatasi la pista “extraparlamentare”, la confessione dell’ex militante Leonardo Marino riaprirà clamorosamente il caso, portando all’arresto e alla definitiva condanna – nel 1997, dopo sette processi e altrettante «riconferme, assoluzioni, annullamenti, nuove condanne» – a 22 anni di carcere per Adriano Sofri, Giorgio Pietrostefani e Ovidio Bompressi, giudicati colpevoli di aver ordito (i primi due) e commesso (il terzo) l’omicidio di Calabresi – il loro accusatore e sedicente complice, condannato a 11 anni, sarà invece prosciolto per avvenuta prescrizione del reato. Fin dal principio e per l’intera durata della vicenda, i tre imputati si dichiareranno innocenti. Nel 2009, tre anni prima dell’estinzione della pena, già agli arresti domiciliari per motivi di salute, Sofri ribadirà la propria estraneità materiale ai fatti, ammettendo tuttavia, per gli attacchi sferrati dalle colonne di «Lotta Continua» all’indirizzo di Calabresi, una dolorosa corresponsabilità morale.

La ripubblicazione nei «Saggi» Quodlibet de Il giudice e lo storico, che Carlo Ginzburg, amico di lunga data di Sofri, stese all’indomani della condanna di primo grado (maggio 1990), rappresenta un’occasione preziosa – necessaria, anzi – per addentrarsi nei primi e decisivi movimenti di un processo inquietante, emblematico delle ombre che, si diceva, la stagione del terrorismo italiano ha gettato sui decenni successivi.

Instant book decisamente sui generis, assai lontano dalla testimonianza personale quanto dal pamphlet polemico (sebbene punte di sarcasmo non manchino), le Considerazioni in margine al processo Sofri (come da sottotitolo) di Ginzburg sono, in buona sostanza, un raffinato esercizio di close reading delle circa tremila pagine di incartamenti processuali; una ricognizione squisitamente filologica (come non potrebbe essere altrimenti per l’autore de I benandanti e Il formaggio e i vermi) incentrata sugli errori, le inverosimiglianze, le contraddizioni, le anomalie e le gravi illogicità che costellano tanto le deposizioni e gli interrogatori di Marino quanto le motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Milano: autentico errore giudiziario che, “messo sotto processo” da Ginzburg, si guadagnerà un suggestivo paragone con il celeberrimo affaire Dreyfus da parte di Umberto Eco.

D’altra parte Ginzburg, reduce dalla stesura del capolavoro stregonesco Storia notturna (1989), nella sua rilettura del processo contro Sofri e i suoi coimputati preferisce sottolineare le sinistre analogie tra l’atteggiamento tenuto dai giudici milanesi e, addirittura, quello degli antichi “colleghi” del Santo Uffizio. Per uno storico formatosi sui verbali dei processi inquisitoriali di stregoneria, sensibile agli intrecci di voci tra accusatori e accusati – alle voci di questi, filtrate e deformate dai pregiudizi, dalle domande, dalle torture di quelli –, le suggestioni e i sofismi branditi durante il processo dal presidente Minale, volte a sorvolare sulle lacune e le patenti incongruenze in cui a più riprese Marino inciampa, suonano fin troppo familiari.

La genuinità del pentimento di Marino, la completa veridicità della sua confessione sono infatti accolte a priori nel corso del dibattimento (non senza ambiguità da parte di Minale), tanto in assenza di riscontri oggettivi quanto in presenza di testimonianze oculari discordanti da quella dell’imputato-teste (e perciò inattendibili), con risultati aberranti che senz’altro ricordano, anche per la prassi di riportare ampi stralci dialogici dei verbali, i processi cinquecenteschi dei primi libri di Ginzburg: si pensi al vertiginoso «gioco di prestigio» (cap. XV, par. e) con cui l’ “inquisitore” Minale, strappando un sonoro «Chapeau» all’autore, a suon di domande capziose si ingegna di “volatilizzare” la donna notata da più di un testimone alla guida dell’auto degli attentatori; impressione che mal si concilia con il ruolo di autista riconosciutosi da Marino nel delitto.

Diversi sono gli spunti di lettura, riflessione o studio suggeriti da Il giudice e lo storico, dalla cui serrata indagine emerge una sorta di riedizione postmoderna della vecchia ma indimenticata caccia alle streghe. Tra questi, il tema del complotto, già caro all’autore (che nell’Introduzione a Storia notturna lo definiva «una realtà quotidiana»), è forse il più intrigante anche da un punto di vista metodologico: l’ipotesi del depistaggio è infatti sfiorata in più luoghi da Ginzburg (es. VII, XIV), tanto da sostenere, provocatoriamente, che «uno storico che cercasse di decifrare questa vicenda rinunciando pregiudizialmente a qualsiasi atteggiamento “dietrologico” farebbe poca strada». Ma la ricerca di un complotto, «per definizione difficile da provare», chiama in causa tutto l’acume interpretativo e l’equilibrio del ricercatore, spinto ad avanzare sul terreno sdrucciolevole delle “prove indirette”: nel caso specifico, ad esempio, la reiterata “scomparsa” di prove testimoniali di primaria importanza (a cominciare dalla Fiat 125 blu degli attentatori, demolita a processo iniziato in seguito al mancato pagamento della tassa automobilistica!).

È del resto sul piano della prova e dell’indizio, fulcro di una riflessione di metodo inaugurata almeno dal saggio Spie (1979), che il libro di Ginzburg, di là dal (vano) proposito di influire sull’esito del processo d’appello, imbastisce una cruciale e più ampia analisi circa le «implicazioni metodologiche e (in senso lato) politiche di una serie di elementi comuni ai due mestieri [appunto, il giudice e lo storico]», come testimoniano i capitoli d’argomento storiografico che incorniciano l’indagine (II; XVIII). E tuttavia, se è vero che il lavoro di giudici e storici, sostiene Ginzburg, si fonda essenzialmente sulla possibilità di dimostrare che “x ha fatto y”, con l’opportunità di colmare le eventuali lacune documentarie ricorrendo al “contesto”, ecco che i giudici milanesi, nell’accogliere le dichiarazioni di Marino pur in assenza di riscontri esterni – leggi: misconoscendo la natura assolutamente congetturale delle integrazioni contestuali nella loro ricostruzione dei fatti – si sono comportati da «storici poco prudenti», con conseguenze che misurano tutta la distanza che, in ultima analisi, separa l’errore scientifico dall’errore giudiziario, le responsabilità dello storico da quelle del giudice.

Qualche paragrafo fa, introducendo la nuova edizione de Il giudice e lo storico, si è voluto definire “necessaria” la sua lettura. Non vorrebbe essere mera retorica recensoriale, né d’altro canto è una semplice lettura quella che l’autore della modesta recensione immodestamente auspica. L’importanza degli Anni di piombo nel definire il rapporto di noi italiani con il potere e le istituzioni democratiche sembra essere direttamente proporzionale alla magra attenzione che i programmi scolastici non di rado accordano a quel periodo. Perdere la memoria di quegli anni tragici, ignorare nomi vicende frammenti di verità (quelli affiorati all’avara superficie della Storia, almeno) significa fornire l’ennesimo, comodo alibi al nostro deplorevole disincanto italiota – al disincanto degli italioti di domani.

Tra le molte, eccellenti letture che chi scrive si sente di consigliare a un insegnante per un seminario-approfondimento sull’epoca aperta da Piazza Fontana e sulle responsabilità di chi indaga il passato, Il giudice e lo storico, per la sua limpidezza programmatica (se ne condividano o meno le posizioni innocentiste), per la tensione etico-civile che ne sostiene le argomentazioni e che conclude la Prefazione, è certo una di quelle di cui non si vorrebbe fare a meno: «Troppo spesso, anche nei paesi democratici, la giustizia sembra configurarsi come una sfera remota, sottratta al controllo del cittadino. Attraverso questo caso (a mio parere, un caso di giustizia vilipesa) i cittadini potranno farsi un’idea del funzionamento concreto della giustizia. La democrazia, se non sbaglio, si esercita anche così».