Recensioni / Dall’Acropoli a Disneyworld: le ultime quattro lezioni di Giancarlo De Carlo sulla città e il territorio

“Chiunque abbia voltato la schiena al palazzo pubblico avrà fatto l’esercizio di immaginare edifici diversi attorno al Campo, e probabilmente non ne avrà ricavato scandalo”. (pp.94-95)

In queste parole sulla Piazza del Campo di Siena è riassunto il senso delle quattro lezioni su città e territorio, svolte da Giancarlo De Carlo alla Facoltà di Architettura di Genova nel 1993 a conclusione di una carriera accademica durata quattro decenni e oggi trascritte nel libro La città e il territorio. Quattro lezioni (ed. Quodlibet, 2019). Le lezioni, finora inedite, sono introdotte da Clelia Tuscano che, non casualmente, individua il ruolo chiave di quello stesso passaggio sul Campo.
Sono parole che non si stenta a immaginare pronunciate da chi, più di vent’anni prima, aveva dichiarato l’architettura troppo importante per essere lasciata agli architetti. A ben guardare, sembra puntualizzare ora De Carlo, l’architettura, di per sé, non è neanche così strettamente necessaria o insostituibile, per lo meno se la si considera da una prospettiva ristretta, come edificio concluso in sé stesso. Più che una serie di edifici al contorno di un vuoto, più che il risultato di “tipi” architettonici prodotti da quei “tipologi” più volte richiamati con tono accusatorio da De Carlo nel corso delle quattro lezioni, il Campo di Siena è innanzitutto uno spazio aperto, dove aperto significa libero e garante di libertà. Libertà – una parola già largamente associata all’architetto genovese e, probabilmente, quella da lui più volte pronunciata durante queste quattro escursioni nella storia del rapporto tra la città e il suo territorio volte a mostrare come lo spazio non debba mai essere coercizione ma punto di riferimento, stimolo al pensiero, al dubbio, al piacere, al libero arbitrio. E anche al diritto di ribellarsi, come simboleggiato dal tentativo di Villard de Honnecourt di razionalizzare la sagoma di una pecora inserendola all’interno di una forma geometrica, per poi rivelare a De Carlo la “grande scoperta” che, a ben vedere, la pecora non corrisponda a tale astrazione, ma “che invece si muova e salti, e che la sua testa non rientri mai nel triangolo” (p.115). Senza il timore di peccare di ambizione, e meno ancora di nascondere le proprie opinioni, De Carlo comprime in meno di dieci ore, adesso raccolte in un libro formato tascabile, una storia lunga oltre due millenni, cercando di dimostrare come non vi possa essere architettura o città senza un territorio. È questa una costante dello sviluppo umano che De Carlo srotola dalla Grecia classica alla tendenza alla smaterializzazione dell’era presente, passando in rassegna casi al contempo ovvi ma mai trattati in maniera ovvia. Il segreto di De Carlo per sfatare l’ovvietà sta nella scelta di spaziare in un ampio campo che, nuovamente, ci ricorda come l’architettura sia solo un frammento del pensiero in disperato bisogno di alleanze con altri frammenti. Da un lato, le lezioni discutono gli esempi propriamente disciplinari, architettonici o urbanistici, che attraversano l’epoca classica, il Medioevo, il Rinascimento, l’Illuminismo e il Movimento Moderno, spaziando da Mileto all’Acropoli, dal monastero di San Gallo alla Roma di Sisto V, dalla piazza Pio II di Pienza al Familisterio di Godin, dal Plan Voisin ai parcheggi di Disneyworld. Dall’altro, e per comprendere i primi in una prospettiva oltre l’architettura, De Carlo chiama in causa, tra gli altri, Omero, Virgilio, Boccaccio, Rousseau, Valéry, Vittorini, perché, afferma, “l’unica possibilità per concepire un’idea di territorio che non derivi dalla specializzazione […] credo sia quella di rivolgersi agli scrittori” (p.42).
Il messaggio di De Carlo è chiaro, e coerente con quel suo monito giovanile a non lasciare l’architettura ai soli architetti: il mondo creato dalla specializzazione è un mondo triste perché privato della capacità di vedere le cose in un quadro ampio. Più in generale, infatti, il senso delle lezioni sta in una maniera di porsi nei confronti della realtà con un atteggiamento aperto alla curiosità, all’ironia, anche all’ottimismo (in che altro modo, infatti, leggere le pagine sulla riscoperta del territorio all’indomani della pestilenza medievale, inevitabilmente cariche di un senso speciale nell’attuale momento storico?) Allo stesso tempo, le parole di De Carlo sostengono l’importanza della leggerezza, della molteplicità, dell’esattezza. Prendo in prestito questi ultimi termini dai titoli di tre delle “sei proposte per il prossimo millennio” che Italo Calvino preparò come ciclo di lezioni da tenere all’Università di Harvard nel 1985. L’accostamento non è casuale, perché nel leggere le lezioni di De Carlo si è spesso riportati a Calvino, un po’ in maniera diretta attraverso le molteplici citazioni e elogi che l’architetto riserva all’amico scrittore, ma un po’ anche perché ciò che accomuna i due è la non comune capacità di elargire sapienza senza la pesantezza del peggiore sapiente. Entrambi dimostrano l’importanza della lezione, un mezzo di comunicazione forse troppo facilmente (e banalmente) screditato oggi, in nome di una presunta superiorità di modi più interattivi di insegnare e imparare rispetto alla più coercitiva (si dice) frontalità della lezione. E, d’altronde, non ci si potrebbe aspettare altro da due pensatori per cui la resistenza all’autorità impositiva era un dato biografico.
Fortunatamente, a differenza di quell’aula di Harvard che non si giovò di ascoltare la voce di Calvino a causa della sua morte prematura, il fato fu più benigno con De Carlo e l’aula di architettura a Genova dove si svolsero le ultime quattro lezioni dell’architetto. Altrettanto fortunatamente, si è presa la decisione di rendere queste lezioni patrimonio collettivo, pur correndo un inevitabile rischio: il piacere di leggerle non potrà mai compensare l’invidia nei confronti di chi ha potuto assistere in prima persona.