Tutto questo è per me
oggi il significato
della parola mito.
Una macchina che
serve a molte cose, o
almeno il presunto
cuore misterioso, il
presunto motore immobile e invisibile di una macchina che
serve a molte cose, nel bene e nel male. E
memoria, rapporto con il passato ... ; e archeologia, e pensieri che stridono sulla lavagna della scuola, e che poi, talvolta, inducono a farsi maestri per provocare anche
in altri il senso di quello stridore. Ed è violenza, mito del potere; e quindi è sospetto
mai cancellabile di fronte a evocazioni di
miti incaricate di una precisa funzione;
quella ... di consacrare le forme di un presente che vuol essere coincidenza con un
"eterno presente"». Furio Jesi scriveva queste parole nel 1976, in uno dei suoi libri più
densi e più belli, Esoterismo e linguaggio
mitologico. Studi su Rainer Maria Rilke, che
torna in questi giorni in libreria (Quodlibet, pp. 288, € 22,00) in un'edizione rivista
(malgrado un evidente refuso) per il quarantennalle della scomparsa del grande studioso. Fu infatti il 17 giugno 1980 che Jesi
perse la vita, a soli trentanove anni, per
una fuga di ossido di carbonio nel suo appartamento, a Genova, dove insegnava Letteratura tedesca dopo una nomina per
Palermo.
Ad Amburgo con Sigfried Giedion
Molto tempo prima, II 18 novembre 1958,
Sigfried Giedion aveva inviato all'indirizzo torinese di Corso Regina Margherita -
dove Furio, orfano dell'ebreo Bruno, abitava con la madre Vanna Chirone - una
lettera (inedita) che si apriva con queste
parole: «Caro dott. Jesi, ricordo con grande piacere la nostra breve conversazione
ad Amburgo...». In quei giorni, il celebre
storico dell'architettura aveva parlato di
Jesi all'Associate Director della fondazione Rockefeller John D. Marshall, e lo farà
di nuovo ricordando un paio di mesi dopo
quanto l'avesse «impressionato per il suo
sapere e l'istinto per le relazioni al congresso internazionale di preistoria di
Amburgo del 1958». Certo il giovane che
aveva illustrato in una giornata di fine agosto le sue tesi innovative sulle istituzioni
preistoriche del culto e della magia non
era, e non sarà mai, «dottore»: dopo aver
pubblicato nel '56 un articolo nel rinomato «Journal of Near Eastern Studies», Jesi
aveva abbandonato il liceo per proseguire
a Hildesheim e Bruxelles i propri studi di
egittologia. Aveva poi fondato la rivista «Archivio internazionale di Etnografia e Preistoria», presentando nel primo numero
quel saggio sulle Connessioni archetipiche
(1958) che si può definire il nucleo della
sua speculazione successiva, e persino del
più compiuto e famoso «modello conoscitivo», la macchina mitologica: maturavano qui
le letture della «collana viola» di Pavese e
De Martino, in particolare delle Radici storiche dei racconti di fate di Propp, della Storia
della civiltà africana di Leo Frobenius e, soprattutto, dei Prolegomeni allo studio scientifico della mitologia di Jung e di Kerényi, volumi che Jesi aveva portato con sé e su cui aveva assai meditato l'anno prima, in un soggiorno di ricerca sul neoplatonismo e la religiosità greco-ortodossa nel monastero
della Gran Meteora. Operando, contro
Jung, un geniale spostamento dalle «figure
organiche» degli archetipi alle costanti dei
rapporti compositivi del linguaggio mitologico, egli rivelava così il suo tratto più
tipico: quell'instinct for relationships colto
da Giedion e sempre animato dalla diffidenza verso qualsiasi ipostasi extra-storica e pronta pertanto a gettare sulla storia
e la vita — appunto come mito e violenza
del potere — il velo della sua immobile
eternità.
Se il germanista precoce che discorreva di Mann con Barbara Allason iniziava
la traduzione delle Elegie Duinesi, l'adolescente egittologo rivelava un più deciso
carattere di mitologo. Sarà Kerényi a indicargli la via e, definendo i Prolegomeni una
creatura centaurica, ad allontanarlo talmente da Jung che anche le «connessioni
archetipiche», giudicate «con la vocazione moralistica dei 16-17 anni .... "valori"
gnoseologici», gli appariranno «una sorta di indecenza emozionale». E sarà lo stesso
magister ormai riconosciuto e incontrato a
Torino nel 1965 a divenire oggetto, suo
malgrado, della medesima attitudine critica (e insieme rigorosamente autocritica).
Kerényi aveva infatti distinto il mito tecnicizzato per fini politici da quello «genuino», che aveva chiamato, con la parola di
Goethe, fenomeno originario (Urphänomen). Jesi riconoscerà invece l'origine stessa
come prodotto di un'elaborazione e avvicinerà di nuovo Kerényi a Jung respingendo
qualsiasi concezione segnata dai suffissi
Ur- o arche-: non solo il mito falso e fabbricato per le masse, ma la stessa presunzione di
un rapporto privilegiato del poeta o dell'esegeta col «mito genuino» e la parola «vera»
equivaleva per lui a un'apologetica legittimazione del potere che esclude i più dalla
fonte della conoscenza.
Ispirato anche da Martin Buber, Jesi non
poteva concepire un autentico rapporto
col mito che non fosse vissuto «in stato di
veglia» come esperienza di verità collettiva, che non implicasse cioè la distruzione
cosciente degli stessi limiti della cultura
dominante, dei sistemi di potere che isolano i veggenti e i maestri dalla massa dei
sonnambuli. Così, se nel 1967 aveva dato
alle stampe il fondamentale Germania segreta (ora nottetempo, 2019), dopo il Maggio francese, quando l'uscita di Letteratura
e mito provocava la rottura insieme teorica e politica con Kerényi, egli prese a scrivere Spartakus. Simbologia della rivolta, febbrile intreccio della cronaca e dell'analisi
mitologica, montaggio brechtiano e insieme sorta di Finnegans Wake sospeso fra Nietzsche, Bakunin e Tamburi nella notte. Il rapporto col mito era ormai per lui un rapporto con l'attualmente inconoscibile, mantenuto attraverso le tecniche della parodia (come nel «romanzo vampirico» L'ultima notte) o dello straniamento, e la ricerca
si faceva studio delle stesse modalità di
non conoscenza, o meglio diveniva, dal
1972, con lo splendido Lettura del «Bateau
ivre» di Rimbaud (ora in Il tempo della festa),
analisi del funzionamento della macchina
mitologica, congegno che allude al mito,
suo cuore nascosto e dall'esistenza presunta, offrendone in cambio i racconti, le
testimonianze leggibili sulla superficie
della storia. Un saggio attuale come L'accusa del sangue (1973, Bollati Boringhieri
2007) indagava in tal senso la produzione
mitologica antisemita, animata - come
nel caso dei Protocolli dei Savi di Sion - da
documenti che appaiono pericolosamente verosimili proprio perché la loro autenticità resta inverificabile.
Vertici stilistici nella forma saggio
Elaborata in dialogo con amici e corrispondenti come Dumèzil, Starobinski,
Scholem, la ricchissima produzione jesiana spaziava nel volgere di pochi anni dalle monografie su Kierkegaard e Bachofen.
(Bollati Boringhieri) a Mitologie intorno all'illuminismo, a Il linguaggio delle pietre (Rizzoli
1978) o all'einaudiano Materiali mitologici
uscito nel '79 con Cultura di destra (ora: nottetempo), e toccava vertici stilistici e compositivi che la situano fra i massimi esempi della forma-saggio contemporanea.
Centrale diveniva infine il tema simpateticamente benjaminiano della traduzione, studiata nel segno del mito della «pura
lingua» (un conclusivo volume degli Studi
su Rainer Maria Rílke avrebbe dovuto indagare i problemi della traducibilità e della
duplicità dei linguaggi).
In ognuno di questi libri risplende per
noi il raggio intenso e inatteso che colpì
Giedion. «Autore come produttore», critico della cultura d'élite e dell'analfabetismo di massa, Jesi non smette di insegnare
restando l'opposto del divulgatore: se proprio chi vuol essere «più comunicativo» si
erge infatti su un indebito piedistallo, di
lui si può dire quel che scrisse di Scholem:
«il singolo sapientissimo, la cui sapienza è
interamente vissuta, può apparire a sé e
agli altri portatore di una speciale corona,
Ma (...) valgono qui alcune parole di Goethe: (...) Eppure proprio per questo ío non ero
che un uomo come gli altri».